Un tranquillo pomeriggio di dicembre tra Milano e Roma
Il 12 dicembre 1969 era una normale e tranquilla giornata autunnale, una come tante altre fino alle 16.37: nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, esplose una bomba che, con la sua brutale potenza, non soltanto spazzò via intere esistenze e segnò per sempre la vita dei familiari delle vittime ma, senza alcun dubbio, modificò anche il corso della nostra storia repubblicana.
L’ordigno venne collocato sotto il tavolo ottagonale al centro della sala più frequentata dell’Istituto bancario, quella in cui i clienti si davano appuntamento e firmavano i contratti, la “Rotonda”, un grande salone di venti metri di diametro. Quel venerdì pomeriggio c’era ancora molta gente all’interno, tra dipendenti, mediatori, compratori e venditori (era “il solo pomeriggio di apertura settimanale, riservato alle contrattazioni dei commercianti di bestiame e dei coltivatori diretti”1). La detonazione fece pensare persino ad un terremoto. Dopo i primi attimi di smarrimento in cui nessuno riusciva a capire quanto realmente fosse accaduto, lo scenario prese i contorni della tragedia vera e propria.
Coloro che erano coscienti si trovarono al centro di una vera e propria strage (parola forte che porta dentro la sua stessa etimologia il significato di macellare capi di bestiame). Sono illuminanti a tal proposito le dichiarazioni del commissario Achille Serra, il primo agente accorso sul luogo: “Mi dissero di andare a vedere, perché era saltata una caldaia e forse c’erano un paio di feriti. Entrai, vidi quello che era successo, mi attaccai al telefono, gridai che servivano cento ambulanze. In questura pensarono: “Il pivello ha perso la bussola”. Alla fine di ambulanze ne servirono novantotto”2. L’ipotesi della caldaia esplosa fu una delle più battute nei minuti successivi all’arrivo dei primi soccorsi: era il cratere al centro della sala a rendere verosimile questa idea. Altri pensarono che la banca fosse stata pesantemente attaccata da rapinatori con granate e bombe a mano. Tuttavia, nessuna di queste teorie resistette più di una manciata di minuti.
Il teatro della strage era ridotto a una distesa di corpi a brandelli e carbonizzati, arti staccati, sangue, vetri in frantumi e sopravvissuti che chiedevano aiuto: in pochi attimi l’inferno sembrò essersi concretizzato in quel pomeriggio in cui le vetrine di Milano facevano già pensare al Natale. Un’altra testimonianza aiuta a comprendere la difficoltà che i sopravvissuti si trovarono a dover affrontare, perché improvvisamente furono catapultati in uno scenario di guerra, una guerra non annunciata e di certo non immaginata. L’allievo sottufficiale di Pubblica Sicurezza Michele Priore disse: “E’ stata la pietà, non il coraggio a farmi restare là”3.
Le sedici vittime dell’attentato furono: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Carlo Silva, Attilio Valle, che morirono sul momento, e Calogero Galatioti e Angelo Scaglia spentisi pochi giorni dopo.
I funerali vennero celebrati tre giorni dopo in una Piazza del Duomo gremita: la partecipazione popolare fu commossa e silenziosa, ma di grande impatto, non soltanto a livello emotivo. Infatti, alcuni sostennero in seguito (in accordo con il giudice Salvini, magistrato milanese che riaprì le indagini su questa mattanza verso la fine degli anni Novanta), che la folla riunitasi a dare l’estremo saluto alle vittime innocenti dell’eccidio fece cambiare idea al Presidente del Consiglio Mariano Rumor (che presiedeva un governo monocolore democristiano dall’agosto del 1969) sulla proclamazione dello stato di emergenza4.
Gli eventi tragici e oscuri del 12 dicembre 1969 e dei giorni successivi non si fermarono né in Piazza Fontana, né a Milano. Altri quattro ordigni vennero posizionati in luoghi frequentati da molte persone. In Piazza della Scala, a Milano, negli stessi minuti dell’esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, venne rinvenuta una valigetta nera che conteneva una cassetta metallica chiusa: appena i commessi la aprirono, scoprirono che conteneva una bomba. Questa era stata posta nei corridoi della Banca Commerciale Italiana, potente istituto finanziario fin dai tempi della sua fondazione, avvenuta settantacinque anni prima. L’edificio venne subito evacuato e gli uomini delle forze dell’ordine si precipitarono con sgomento ad esaminare il contenuto di quella cassetta metallica. Inspiegabilmente, in serata, gli agenti provocarono l’esplosione dell’ordigno senza nessuna disposizione dell’autorità giudiziaria, distruggendo così una prova fondamentale per ricostruire quanto si era appena consumato in quel pomeriggio. In maniera tragicomica il giudice istruttore di Roma, che dovette ricostruire da seicento chilometri di distanza cosa accadde, scrisse che “i frammenti residuati allo scoppio venivano raccolti e repertati”5. Non venne mai scoperto per quale motivo si operò quella sciagurata scelta, se per suggerimento o pressione di qualcuno o per motivi di sicurezza, come argomentato dai periti presenti. E’ forse questo l’episodio che segna l’inizio delle lacune, degli errori, delle deviazioni presenti nelle indagini per accertare la responsabilità di quelle bombe.
Nella capitale, sempre quel funesto giorno del 1969, tra le 16.50 e le 17.30 scoppiarono altre tre bombe: una alla Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio, tra il Quirinale e Villa Borghese, la quale per un caso fortuito non provocò il secondo eccidio della giornata, ma si limitò a generare terrore e quattordici feriti; altre due nei pressi dell’Altare della Patria, una sotto la bandiera accanto al monumento al Milite Ignoto e l’altra fuori dal Museo del Risorgimento. Il bilancio di quest’ultimo ordigno sarà di un carabiniere e tre passanti feriti, oltre ad una forte dose di panico (cadde anche il soffitto dell’Ara Coeli). Anche a Roma gli avvenimenti non vennero prontamente compresi. Scrisse un quotidiano che “nessuno si è reso conto che si trattava di un attentato” ed aggiunge: “Il passaggio sotterraneo era devastato, squarciati i tubi del riscaldamento dell’acqua e a pezzi le caldaie”6. Si ripetè, dunque, lo stesso copione di Milano: l’ipotesi più plausibile parve lo scoppio delle caldaie o delle tubature.
Tre banche e due simboli patriottici furono perciò i bersagli della follia terroristica di quel giorno. Ma è plausibile parlare di follia? Allargando lo sguardo, cercando di osservare la città dall’alto e non dall’interno delle sue vie, risultava difficile credere all’assenza di un piano preordinato, preciso e ben finanziato di azioni terroristiche da attuare simultaneamente sul territorio nazionale. Tuttavia, da subito gli inquirenti si concentrarono sui gruppi anarchici e sui personaggi legati all’estrema sinistra. Rimasero ben poche (e ben occultate) le voci fuori dal coro.
La caccia ai “rossi”
I cinque botti del 12 dicembre arrivarono a chiudere mesi tesissimi caratterizzati da scontri sociali, manifestazioni di piazza, scioperi (più altre varie forme di lotta, come l’interruzione del processo produttivo di una fabbrica attraverso lo stop di alcune fasi di lavorazione specifiche, in maniera improvvisa), nonché dalla radicalizzazione dei gruppi politici extraparlamentari. La temperatura si fece sempre più rovente in autunno, fino ad arrivare all’episodio della morte dell’agente Antonio Annarumma, avvenuta negli scontri tra forze dell’ordine e Unione dei Marxisti Leninisti, il 19 novembre 1969. Questo episodio è significativo perché segnò un deciso cambio di passo istituzionale, una sorta di giro di vite, per stroncare una volta per tutte le forme della contestazione, anche attraverso l’uso dell’esercito. Infatti, il Presidente della Repubblica Saragat si spinse ad appoggiare la tesi dell’omicidio intenzionale, propugnata dalla destra, senza che nessuna indagine ufficiale fosse stata avviata.
Ma non è tutto: oltre all’inasprimento delle posizioni dei partiti e delle formazioni di destra (appoggiati da consistenti gruppi di conservatori, di industriali e dalle forze dell’ordine), che chiedevano un ritorno all’ordine, si assistette anche all’uso “repressivo” del Codice Penale, il cosiddetto “Codice Rocco” redatto negli anni Trenta sotto il regime fascista, al fine di piegare i manifestanti ed i contestatori (buona parte dei funzionari delle questure, degli uffici politici e dei tribunali, ancora alla fine degli anni Sessanta, si era formata nel Ventennio). Questo uso troppo rigido e repressivo della legge e della forza pubblica venne chiaramente contestato dal Ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, in una dichiarazione, riportata dai giornali dell’8 gennaio 1970, in cui denunciò la distorsione delle indagini e delle sentenze al fine di reagire ai tumulti nella società e nelle fabbriche.
Pochi giorni dopo la morte di Annarumma, esattamente il 9 dicembre 1969, vi fu un dibattito parlamentare sull’ordine pubblico in Italia, durante il quale il Ministro dell’Interno Restivo espose alcuni dati ed alcune considerazioni: dalla metà del 1968 fino a quel giorno vi erano stati ventotto attentati attribuibili alla sinistra, che preferiva colpire edifici pubblici, chiese e caserme, e ventitrè alla destra, che si concentrava di più su sedi partitiche e sindacali ed università. Questi dati vennero subito smentiti dai calcoli effettuati dai militanti della Nuova Sinistra, i quali stimarono che nel solo 1969 era esplosa una bomba ogni tre giorni, insomma, gli attentati erano stati in tutto centoquarantacinque7.
Questo era il terreno sul quale si innestarono i cinque ordigni del 12 dicembre e dal quale originarono le successive indagini: una serie impressionante di attentati dimostrativi, scontri sociali sempre più aspri, membri autorevoli e sempre più numerosi delle istituzioni che chiedevano un veloce ritorno all’ordine, auspicando l’intervento dell’esercito, qualora il corso degli eventi avesse preso una piega preoccupante. Da qui partì la caccia ai “rossi”, agli anarchici subito dopo la strage. Dimenticandosi di guardare la città dall’alto, piuttosto che dall’interno, tra le sue vie.
Le indagini vennero avviate poche ore dopo gli attentati, con una serie di perquisizioni che investirono i militanti di varie parti politiche. La questura di Milano, però, divenne una sorta di “punto di ritrovo” per gli anarchici (alcuni storici, oggi, sostengono l’ipotesi che il vero fine della Questura milanese fosse arrivare all’editore Giangiacomo Feltrinelli, finanziatore e protettore di diversi gruppi nell’orbita della sinistra extra-parlamentare, il quale morì in seguito, nel marzo del ’72, in circostanze in parte ancora misteriose). Gli interrogatori, i confronti, la verifica degli alibi occuparono interi giorni e notti senza alcuna sosta, fino al 15 dicembre 1969, il giorno della svolta decisiva (come sottolinea più volte lo storico Boatti nella sua ricostruzione delle indagini).
La mattina di quel lunedì venne arrestato Pietro Valpreda presso gli uffici del Tribunale di Milano. La vicenda è nota: Valpreda era un ballerino anarchico, espulso dal gruppo milanese “Ponte della Ghisolfa” (guidato da Giuseppe Pinelli ed infiltrato – il gruppo – da un impresario al soldo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno), divenuto membro del circolo romano “22 marzo”. Questo era uno sgangherato ed esaltato entourage di una decina di persone infiltrato sia dalla Pubblica Sicurezza, per mezzo dell’agente Salvatore Ippolito (il “compagno Andrea”), sia da un informatore dei sevizi, Mario Merlino. Il particolare manipolo di attivisti venne accusato della pianificazione degli attentati e della strage, ma a subire le conseguenze più gravi fu proprio Valpreda: egli dovette scontare 1100 giorni di carcerazione, nonché subire una campagna di stampa colossale che lo dipinse come il vero stragista. Insomma, venne messa in moto quella che noi, oggi, chiameremmo “macchina del fango”. L’impianto accusatorio si basava sulla testimonianza di un tassista (rilasciata sempre il 15 dicembre, dopo tre giorni passati a pensare sul da farsi), il signor Cornelio Rolandi, il quale sostenne di avere accompagnato un signore in Piazza Fontana, che era entrato ed uscito dalla banca verso le 16.30. Rolandi riconobbe in Pietro Valpreda il passeggero del suo tassì. Alcuni elementi, però, risultano essere ben poco chiari riguardo al comportamento dei carabinieri e dei magistrati. Il confronto finalizzato al riconoscimento del passeggero avvenne con modalità alquanto strane: Valpreda, dopo giorni in questura, sporco, sfatto e stanco fu posto tra alcuni agenti in borghese ben ordinati e puliti. L’elemento ancora più grave dev’essere collocato prima del riconoscimento. Come dichiarò lo stesso Rolandi: “Mi è stata mostrata dai Carabinieri di Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che dovevo riconoscere”8. Basterà questo in tutti i processi successivi, davanti a tutte le Corti, a far cadere le accuse “confezionate” contro il ballerino anarchico.
Nella serata di lunedì 15 dicembre si consumò un ulteriore dramma: dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, posizionata al quarto piano della Questura milanese, cadde l’anarchico Giuseppe Pinelli, la diciassettesima vittima di Piazza Fontana. Una verità giudiziaria non c’è. Nel 1975 il giudice D’Ambrosio, in una sua sentenza, formulò la fantasiosa ipotesi del “malore attivo”, causato dalla malnutrizione, dalla mancanza di sonno e dai continui interrogatori, poiché Pinelli era stato trattenuto in Questura illegalmente per tre giorni, in barba alla legge che prevedeva o l’arresto o il rilascio dopo le prime quarantott’ore di fermo. Gli agenti non si degnarono nemmeno di avvisare la moglie di Pinelli del tragico “incidente” accorso al marito: furono due giornalisti del “Corriere” a darle il triste annuncio. Subito dopo la morte dell’anarchico, il questore Marcello Guida affermò che “[Pinelli] era fortemente indiziato di concorso in strage… il suo alibi era caduto”9. L’idea che si intendeva fare passare era quella di un suicidio per sfuggire alle oggettive responsabilità, ormai accertate dagli investigatori milanesi. Nulla poteva essere più falso, ma un altro innocente, dopo i sedici dei giorni precedenti, era rimasto ucciso in quel mare di menzogne (due anni dopo il commissario Calabresi morì per mano di due militanti di Lotta Continua, il 17 maggio 1972; venne accertato che, al momento del volo di Pinelli10, il commissario non si trovava all’interno dell’ufficio; la verità giudiziaria, tuttavia, presenta molti punti non chiari ancora oggi).
Il 15 dicembre 1969 fu dunque una giornata densa di eventi fondamentali, come ricordato appena sopra. Si svolsero i funerali delle vittime di Piazza Fontana, Pietro Valpreda venne arrestato, Roma si impossessò di tutta l’inchiesta (una “curiosità”: il riconoscimento di Valpreda da parte del signor Rolandi avvenne negli uffici della Questura di Roma, pur essendo stati, i protagonisti, rispettivamente arrestato a Milano e sentito come testimone sempre nel capoluogo lombardo, lo stesso giorno), imprimendovi la sterzata decisa verso la pista anarchica, e Pino Pinelli rimase ucciso dopo un presunto “malore attivo”, mentre si trovava sotto torchio illegalmente da circa 72 ore. Non è tutto: nella serata, a Vittorio Veneto, in un luogo apparentemente lontano dalla bufera figlia degli attentati terroristici, il professore di francese Guido Lorenzon offriva una confessione sconvolgente al suo avvocato. Dopo undici giorni, Lorenzon decise di affidare al procuratore generale di Treviso tutto quello che sapeva, nero su bianco.
Depistaggi, coperture e non punibilità
Guido Lorenzon era legato a Giovanni Ventura da un’amicizia solida, fin dai primi anni Sessanta, ma davanti a tutto quel dolore, dopo il 12 dicembre, decise di rivelare le notizie scottanti che l’amico gli aveva confidato. Ventura aveva reso nota la sua appartenenza ad un gruppo paramilitare terroristico con finalità eversiva, da lui stesso capeggiato, nonché l’esistenza di un’altra organizzazione simile che lo fiancheggiava. Gli scopi erano presto detti: il rovesciamento dell’ordine costituito. Fino a questo punto nulla di sconvolgente, non erano affatto le sole cellule nere eversive presenti sul territorio italiano in quegli anni. La parte più importante delle confidenze del militante di estrema destra all’amico riguardavano, però, il diretto coinvolgimento in una serie di attentati avvenuti nell’arco del 1969: Ventura conosceva dettagli inquietanti sugli ordigni esplosi sui treni tra l’8 e il 9 agosto dello stesso anno (prezzo e collocazione delle bombe, alibi degli attentatori); aveva parlato di attentati che si dovevano compiere a Milano e per la visita di Nixon in Italia; infine, si lamentava del fatto che le bombe del 12 dicembre non avevano provocato nessuno smottamento del sistema politico, dunque, era necessario andare avanti ancora (disse di essere a conoscenza da tempo dei piani per far esplodere le cinque bombe del 12 e non si capacitava della mancata detonazione della bomba alla Banca Commerciale Italiana)11. Il materiale nelle mani del magistrato di Treviso era di straordinaria importanza, avrebbe dovuto essere scandagliato e verificato, avrebbe potuto portare all’abbandono immediato della pista anarchica, se tutte quelle notizie fossero state riscontrate (come accadde poco dopo, tutti i magistrati che analizzarono gli appunti di Guido Lorenzon li considerarono “veridici al di là di ogni ragionevole dubbio”). Tuttavia, in questa vicenda il corso degli eventi sembra seguire una strada tutta sua. Così, l’aspetto sul quale il magistrato trevigiano volle occuparsi di più fu un libretto dalla copertina scarlatta, intitolato La giustizia è come il timone, dove la si gira va, consegnato dal testimone. Tutto pareva far pensare ad un libello della sinistra estrema; dalle indagini, però, emerse il vero autore: Franco Freda, avvocato padovano, dalle spiccate simpatie neonaziste. Il personaggio chiave dell’eversione nera padovana è lui: la mente “pubblica” della strategia stragista, il burattinaio dei giovani neofascisti esaltati del Veneto, l’individuo dalle coperture istituzionali, potenti ed inconfessabili12.
A Treviso il supertestimone pareva subire l’indifferenza generale, mentre a Roma il pubblico ministero Occorsio ed il giudice istruttore Cudillo lo considerarono del tutto inattendibile: in tale giudizio deve aver pesato la vicinanza con il Ministero dell’Interno, la presunta fabbrica della pista anarchica. Proprio il Viminale, nella persona del Ministro Restivo, fece orecchio da mercante alla richiesta di intervento d’emergenza nella pista delle cellule nere, richiesta arrivata direttamente dal-l’on. Dino De Poli, scelto dal Lorenzon come difensore. All’incontro tra l’onorevole ed il Ministro partecipò anche l’enigmatica figura del capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero, Federico Umberto D’Amato.
Comunque, il clamore suscitato dalle scottanti rivelazioni ottenne un effetto: Freda e Ventura vennero subito indagati per associazione sovversiva e ricostituzione del PNF. Particolarmente grave era la posizione del secondo, accusato anche degli attentati dell’estate. Per la verità, a Padova, il commissario Iuliano aveva già cominciato ad indagare (seriamente) su Freda, arrivando persino a
metterlo sotto intercettazione telefonica – e prontamente all’avvocato giunse l’informazione dall’Ufficio politico di Padova, segno inquietante della rete di copertura di cui godeva già allora, all’interno delle istituzioni – dopo un attentato al rettorato dell’Università di Padova, avvenuto nell’aprile del 196913. Nel 1974, cinque anni dopo, il giudice milanese D’Ambrosio chiarì che quell’attentato era frutto di un’organizzazione eversiva, il cui fine ultimo era sovvertire l’ordinamento costituzionale e per farlo si sarebbe servita di un’escalation di azioni terroristiche via via più gravi.
Nel Veneto i primi anni Settanta sono costellati da manovre, che portarono alla quasi destituzione del commissario Pasquale Iuliano, nonché da azioni di pressione più o meno violente per indurre chi sapeva qualcosa al silenzio. Lorenzon, trovandosi sempre più isolato, ritrattò alcuni punti della confessione. Finì peggio la storia del portinaio di uno stabile in Piazza Insurrezione, Alberto Muraro, ucciso perché colpevole di avere testimoniato “a favore” di Iuliano, perché proprio in quel palazzo aveva sede una sorta di mini-arsenale della cellula nera padovana che era stata decapitata dal commissario (egli aveva colto un militante mentre usciva dal palazzo con dell’esplosivo). Vennero indagati Freda e gli altri membri della cellula per quest’omicidio, salvo poi essere tutti assolti.
Le prove a carico dei veneti si fecero sempre più consistenti, sempre più difficili da negare. Attraverso la riscoperta delle intercettazioni telefoniche, cadute chissà per quale motivo nel dimenticatoio, nel 1972 venne accertato l’acquisto compiuto da Freda di cinquanta timer o temporizzatori, da sessanta minuti, prodotti dalla Junghans-Diehl, dello stesso tipo usato per i cinque ordigni di dicembre. Messo alle strette, l’imputato non negò, anzi: inventò la collaborazione con una spia di Algeri, per la quale aveva comprato lui stesso i temporizzatori. Una storia piuttosto difficile da credere. Ma l’impianto probatorio poteva godere di un’altra importantissima certezza. Franco Freda, due giorni prima del 12 dicembre, aveva acquistato a Padova alcune borse Mosbach-Gruber dello stesso modello di quelle utilizzate negli attentati. I titolari del negozio andarono a testimoniare dopo avere riconosciuto, nelle immagini apparse in televisione e sui quotidiani (gli inquirenti mostrarono la borsa intatta lasciata alla Banca Commerciale Italiana), il modello da loro stessi venduto all’uomo ben distinto il 10 dicembre. L’indizio delle borse fece la sua comparsa nel 1972, dopo un oblio durato ben tre anni. La deposizione dei negozianti risaliva, infatti, al 15 dicembre 1969. Il 28 agosto 1972 la “pista nera” si concretizzò nel mandato di cattura per strage emesso contro Franco Freda e Giovanni Ventura dal giudice istruttore milanese D’Ambrosio14.
Ventura si dichiarò, a partire da quel momento, disposto a parlare, a raccontare la sua verità. I due seguirono una strategia ben precisa: mostrarsi estranei, politicamente distanti anni luce (Ventura giocò il ruolo dell’infiltrato in alcuni gruppi della sinistra estrema già prima delle indagini a suo carico). Quando la situazione si presentò sempre più disperata per Ventura, questo decise di parlare ai magistrati ammettendo i contatti tra la cellula nera padovana ed il SID, il servizio segreto militare, attento spettatore della inchiesta di Milano e grande manovratore di personaggi informati sui fatti.
L’uomo di contatto tra manovalanza terrorista e servizi segreti era un giornalista neofascista, Guido Giannettini. “Ingaggiato il 18 ottobre 1966 dal SID “per esigenze dello Stato Maggiore della Difesa” col nome in codice di agente “Z”, elabora dossier sulle organizzazioni estremiste di destra e di sinistra […] Specializzato nella guerra psicologica […]”15. La sua appartenenza ai servizi venne coperta non solo dai vertici delle agenzie, ma anche da politici come il Presidente Rumor e il Ministro della Difesa Tanassi. Solo nel giugno del 1974, Giulio Andreotti, divenuto da pochi mesi Ministro della Difesa, rivelò ad un giornalista tale appartenenza dell’agente “Z”. Dopo l’incriminazione per strage di quest’ultimo e dopo avere mentito ai magistrati, tranquillamente, i vertici del potere politico decisero che era giunta l’ora di concedere parziali ammissioni sui contatti tra terroristi e servizi segreti italiani. Sia chiaro, la base solida delle prove non furono solo le dichiarazioni di terroristi indagati o alcune sparate giornalistiche: nel 1971 vennero scoperti documenti segreti – tra i quali era presente un elenco degli operativi statunitensi sul territorio italiano, tanto per dare un’idea dell’importanza di quei dattiloscritti, provenienti dal SID in una cassetta di sicurezza alla Banca Popolare di Montebelluna, intestata alla madre ed alla zia di Ventura. Andreotti ammise lo “sbaglio grave”16 e riconobbe l’esigenza di dire la verità. Cinque anni dopo la strage, cinque anni trascorsi in un clima tesissimo, con la strategia della tensione che non si era certo esaurita il 12 dicembre.
Giannettini fuggì dall’Italia e dalla giustizia italiana nel 1974, ma non fu l’unico: con lui e tanti altri anche il segretario personale di Freda, Marco Pozzan, riuscì a scappare. Tecnicamente non fu una fuga, i servizi la definiscono in gergo tecnico “esfiltrazione”, la fuoriuscita di agenti o informatori o contatti dal suolo nazionale, attraverso l’uso di documenti falsi. Pure Freda e Ventura riuscirono a scappare, seppure entrambi per un breve periodo, alla vigilia della sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro del 1979, salvo poi essere catturati di nuovo.
E’ inevitabile, infine, spiegare come mai entrò in scena la Corte d’Assise di Catanzaro. La traiettoria seguita nel corso degli anni, o meglio, nel corso dei decenni, dalle indagini e dai processi per stabilire le responsabilità dell’eccidio di Piazza Fontana (e, conseguentemente, anche degli altri quattro ordigni dello stesso giorno) è ubriacante. A Milano partirono nello stesso pomeriggio di quel maledetto venerdì le inchieste, ma poco dopo tutto il materiale venne prelevato da Roma (si ricordi che proprio nella Questura romana avvenne il riconoscimento “pilotato” di Valpreda, da parte del tassista Rolandi: entrambi si trovavano a Milano fino al 15 dicembre). La Corte di Assise di Roma stabilì il 6 marzo 1972 che tutti gli imputati dovevano ritornare in Lombardia, pochi giorni dopo, sempre per incompetenza territoriale Anche Treviso riversò su Milano tutti gli atti. Nel capoluogo lombardo si dovettero fare i conti con due piste da seguire completamente opposte, la pista “rossa” e quella “nera”. Da qui il processo si spostò a Catanzaro, a più di 1200 km, per richiesta dello stesso Procuratore della Repubblica milanese, principalmente per motivi di ordine pubblico, scaturiti anche dai dubbi e dalle perplessità dell’opinione pubblica nel modo in cui erano state condotte le indagini17 e dall’aspro scontro politico in atto in città. Pure i difensori della parte civile si mostrarono d’accordo, temendo anche possibili violenze sugli imputati e sui testimoni.
Il tutto, dunque, approdò a Catanzaro; da qui Freda e Ventura si allontanarono per poco tempo dal soggiorno obbligato. La sentenza di primo grado del 1979 condannò all’ergastolo i due capi della cellula nera veneta ed anche l’agente “Z” Giannettini, mentre la sentenza di secondo grado del 1981, assolse tutti per insufficienza. A porre la definitiva pietra tombale su questi imputati fu la Corte di Assise di Bari il 1˚ agosto 1985.
Sul finire degli anni Novanta, il giudice milanese Salvini avviò un nuovo filone di indagine, il settimo della storia su Piazza Fontana, portando alla sbarra altri tre neofascisti: Delfo Zorzi (ex esponente di Ordine Nuovo a Mestre), Carlo Maria Maggi (ex responsabile politico di Ordine Nuovo nel Triveneto) e Giancarlo Rognoni (ex leader milanese de “La Fenice”, gruppo estremista nero). Il tutto si concluse nel 2005, dopo una sentenza di condanna ed una di assoluzione nei due gradi di merito, con la definitiva sentenza di assoluzione. I familiari delle vittime, costituitisi parte civile, vennero condannati al pagamento delle spese processuali.
Dopo anni interi di comprovati depistaggi, rifiuti più o meno espliciti di raccontare la verità ai magistrati, il giudice Salvini tuonò contro le resistenze che ancora, dopo quarant’anni, si trovava a dovere affrontare all’interno dello stesso Tribunale di Milano e tra i colleghi magistrati. La verità giudiziaria, quindi, non c’è ed i colpevoli non sono stati assicurati alla giustizia.
Luca Bellia