L’abito e il genere
Nel corso della sua missione, Giovanna d’Arco indossò quasi esclusivamente abiti maschili, tranne che per il breve periodo intercorso tra l’arrivo a Vaucoleurs (maggio 1428) dal suo villaggio natale di Domrémy e la partenza per Chinon (13 febbraio 1429),[1] per raggiungere il Delfino. Prima della sua partenza gli abitanti di Vaucoleurs le diedero dei vestiti “adatti” al viaggio, consistenti in calzari, giacca e cappuccio: fu quella la prima volta in cui ella indossò abiti di foggia maschile.[2] In seguito, Giovanna non rinunciò a portare l’abito maschile, che indossava nel corso delle campagne militari, ma anche alla corte del futuro Carlo VII e durante i mesi del processo che porterà alla sua condanna e alla morte sul rogo. Questo è il punto principale sul quale verterà l’indagine: l’abito, e la questione di genere che è strettamente collegata con la predilezione per gli abiti maschili.
L’ ostinazione di Giovanna d’Arco nel portare indumenti maschili non sembra assumere in questo caso la forma del mutamento d’abito tipico delle sante mistiche, che nel tardo Medioevo, giustificarono il loro comportamento deviante rispetto alle convenzioni appellandosi al volere divino, cercando dunque di travalicare il potere delle istituzioni presentandosi come semplici portavoce della Divinità. E’ chiaro che questo comportamento poteva risultare sgradito al clero, poiché tendeva a scavalcare l’autorità mediatrice che la Chiesa aveva rivendicato a sé, spesso le mistiche visionarie apparivano quindi all’istituzione ecclesiastica come niente di più che delle abili promotrici di se stesse. E’ in questa luce che i giudici lessero il comportamento di Giovanna, anche se, riguardo all’abbigliamento, la Pulzella aveva ben poco in comune con loro, che sceglievano di cambiare abito alla luce di una scelta di ascetismo e di umiltà, infatti non disdegnò mai nelle vesti il lusso sfarzoso. A supporto di questa interpretazione la Cronique des cordeliers ricorda che, oltre all’armatura, furono preparati per Giovanna, dopo il suo arrivo a Chinon e l’incontro con il Delfino nel febbraio del 1429[3] “très nobles habis de draps d’or et de soie bien fourrées” ( abiti molto nobili trapunti d’oro e ben imbottiti di pelliccia). Vi sono poi altre testimonianze che parlano di un berretto di seta o di velluto blu, e di una tunica verde scuro donatale da Carlo di Orleans.[4] Tale lusso venne in seguito rilevato dai giudici nel corso del processo, che la accusarono di portare abiti “ curtis, brevibus, et dissolutis” (corti, minuti e dissoluti), “sumptuosis et pomposis vestibus de pannis preciosis et aureis ac eciam foderaturis” ( sontuosi e magnifici vestiti di preziosa fabbricazione d’oro e di pelliccia).[5] Secondo Susan Crane, l’autrice che costituisce l’autorità di riferimento per tutto quel che segue, Giovanna si trovava in tal modo nella situazione di doversi difendere dall’accusa di ostentare attraverso il lusso uno status alto, quindi suscettibile di condanna morale e dell’accusa di presunzione,[6] alla quale per il vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon e per i suoi colleghi, si aggiungeva il disprezzo della ragazza per la gerarchia ecclesiastica e per la mediazione degli uomini di Chiesa, rivendicando un rapporto diretto con Dio.[7] Sempre secondo Susan Crane, gli studiosi hanno generalmente considerato l’uso che la Pulzella fece dell’abito maschile un attributo della sua missione religiosa e militare, una scelta dettata dalla necessità, senza nessun tipo di connotato inerente alla sessualità. L’immagine di Giovanna che emerge dalla documentazione che la riguarda sarebbe invece un soggetto appropriato per un’analisi che consideri il genere come un qualcosa che si costituisce nello stesso momento in cui si realizza una sua rappresentazione, piuttosto che non come derivazione di un’identità preesistente. La prima preoccupazione della Crane è quindi non di stabilire se effettivamente Dio avesse parlato o meno alla Pulzella, un obiettivo impossibile per lo storico, quanto piuttosto l’autocostruzione che quest’ultima fece di se stessa, sotto il peso e la tensione del processo. La studiosa si propone quindi di analizzare l’abito maschile adottato da Giovanna in una nuova luce, poiché a suo dire il genere comprende sia l’esteriorità sia l’espressione e l’organizzazione del desiderio che costituisce la sessualità stessa. Di qui la possibilità che l’indossare abiti maschili fosse per Giovanna legato non solo alla sua missione militare e divina, ma anche alla sua sessualità.
A questo proposito occorre almeno ricordare che il discorso medievale sulla sessualità era inserito nella dottrina penitenziale e prendeva in considerazione gli atti omosessuali, ma non l’”identità” omosessuale. La questione dell’abito sarà cruciale nel corso del processo di condanna, perché la Chiesa era l’istituzione deputata ad occuparsi dei problemi inerenti alla sfera sessuale, incoraggiando la separazione dei generi.
Giovanna giustificò sempre la sua scelta di indossare un abito maschile come un semplice gesto strumentale, dettato dalla necessità, senza alcun significato morale o di genere. Rifiutò sempre di indicare una persona specifica che le avesse consigliato di iniziare a portarlo: “Non farò ricadere su altri una responsabilità così pesante!”[8] , sostenendo invece che: “Fu per me una necessità indossare l’abito maschile”.[9] Nelle prime fasi del processo la stessa Giovanna aveva minimizzato la questione dell’abito: “L’abito non vuol dire niente; è una cosa secondaria”[10] , sicché parrebbe che le vesti, maschili o femminili avessero per la Pulzella una mera funzione di convenienza, infatti, invitata ad indossare indumenti femminili risponde : “Se mi lasciaste andare vestita da donna, io mi rivestirei subito da uomo e farei quello che il Signore mi ordinerebbe”.[11] Il fine degli indumenti era subordinato, come tutta la persona di Giovanna, ad un solo scopo: resistere agli inglesi. Anche i suoi contemporanei giustificavano l’abbigliamento di Giovanna con i suoi continui viaggi e spostamenti e con le esigenze della guerra, come viene riportato dalla Chronique de la Pucelle: “il fault, pour ce que je me doibs armer et servir le gentil Daulphin en armes , que je prenne les habillemens propices et necessairesà ce” (perché devo armarmi e servire il gentile Delfino in armi, devo prendere gli abiti adatti e necessari per lo scopo)[12], tuttavia Giovanna portava vesti di foggia maschile non solo in battaglia, ma anche alla corte del Delfino, in prigione e persino per ricevere la Comunione. Questo suo continuo uso dell’abito maschile non si può quindi spiegare solo con la mera convenienza. Come poteva favorire la sua opposizione agli inglesi il rifiutarsi di indossare vesti da donna in chiesa? Questo era chiaramente un problema concreto, dato che i giudici si rifiutavano di concedere a Giovanna i sacramenti finché avesse indossato abiti maschili.
Oltre all’argomento della strumentalità e della necessità dell’abito maschile, Giovanna, dopo la domanda di Jean Beaupère, (il vecchio rettore dell’università di Parigi e giudice nel processo di condanna), nel corso della quarta udienza pubblica , adduce una nuova ragione che giustifica il suo comportamento, affermando di indossare un abito maschile per comando di Dio: “(…) Io mi vesto così per ordine di Dio e per meglio servirlo, non credo di fare male; (…) A Dio piace che lo indossi!”.[13][14] I giudici si dimostrarono molto insistenti sulla questione dell’abito maschile e vi tornarono più volte nel corso del processo di condanna, Beaupère in particolare vi si soffermò: “Tu pensi che il consiglio che ti è stato dato riguardo agli abiti maschili sia lecito?”[15] al che la Pulzella replicò: “Tutto quello che ho fatto è stato per il volere di Dio. Se lui mi comandasse di vestirmi altrimenti, lo farei perché sarebbe Lui a comandarmelo”[16] . Il volere di Dio diventa la spiegazione che Giovanna darà sempre nel corso del processo ai giudici che la invitavano a rinunciare all’abbigliamento maschile per riprendere le vesti femminili. Riguardo alla questione dell’abito, Giovanna passa, nella sua testimonianza, dal considerarlo un’ inezia alla quale viene data fin troppa attenzione, a ritenerlo il simbolo fondamentale della propria identità, legata al suo nuovo status di “cavaliere” e alla sua missione divina. L’uso simbolico che la Pulzella fa dell’abito maschile, al di là della sua concreta praticità d’uso, mostra quanto esso foggi la sessualità di Giovanna. Simon Gaunt afferma che “La sessualità è centrale per la costruzione della santità nel Medioevo”[17] : i voti di castità, l’unione mistica con Dio e il travestitismo non allontanano i santi dal campo della sessualità, ma al contrario continuano a definirli in rapporto all’identità sessuale che hanno rimodellato. La scelta di Giovanna di portare l’abito maschile, tuttavia, è in contrasto sia con la convenzionale femminilità del suo tempo sia con i modelli delle sante bibliche. Queste infatti (come avviene nel caso di Tecla e Marina) adottavano il vestito ascetico che minimizzava le differenze sessuali; Susan Crane sostiene che se l’abito maschile “complicava” il genere di Giovanna, tuttavia non lo faceva in modo da “cancellare” il suo sesso. Inoltre dalle testimonianze non risulta che la Pulzella abbia considerato le vesti maschili un impedimento alla propria religiosità, infatti, nel corso del processo di condanna, afferma: “Permettetemi di sentire messa in abito maschile: questo abito non cambia la mia anima; indossarlo non è contro la Chiesa!”.[18] L’abbigliamento maschile non era segno di una rinuncia del mondo, ma anzi, un modo per entrarvi più pienamente: per Kirsten Hastrup Giovanna non avrebbe potuto guidare degli uomini d’arme se non avesse avuto lo status di Pucelle.[19] La verginità che a questo status è collegata è fondamentale per Giovanna stessa e per la sua missione, ed è una condizione strettamente necessaria alla salvezza dell’anima. Se la verginità agli occhi dei suoi contemporanei aveva un valore ambivalente, in quanto i suoi sostenitori parlano dell’abito maschile solo in relazione alle necessità della guerra, mentre i detrattori della Pulzella la chiamano per questo “femme monstrueuse”[20] , Giovanna collegò la foggia degli abiti alla necessità di proteggere la propria verginità e all’ordine ricevuto da Dio, senza il permesso del quale non li avrebbe dismessi. E’ chiaro quindi che i concetti di verginità e di uso dell’abbigliamento maschile giocano una parte essenziale nella costruzione dell’identità di Giovanna, alla quale ella si rifiuterà sempre di rinunciare, arrivando addirittura ad anticipare l’esecuzione per non aver voluto abbandonare l’abito maschile, ed in seguito ad essere giudicata eretica relapsa e condannata al rogo per aver ripreso ad abbigliarsi in foggia maschile. Bisogna però aggiungere che durante le ultime sedute del processo, Giovanna cambiò versione, evitando di sostenere come aveva fatto in precedenza che la questione era collegata non alla sua volontà, ma ad un preciso ordine di Dio, e formulando invece una serie di risposte evasive come “donnez moy la dilacion” (accordatemi una dilazione)[21] oppure: “Per oggi non avrete altre risposte”[22], concludendo infine in maniera decisamente ambigua, dichiarando: “So chi mi ha fatto prendere quest’abito, ma non so come fare a rivelarlo”.[23]
A questo punto la Crane si domanda se alla Pulzella stessa non fossero venuti dei dubbi riguardo al suo abbigliamento, tanto da ritenere ardito ascriverlo alla volontà di Dio. E a questo proposito cita uno studio di Marjorie Garber[24] , secondo la quale, nel caso di Giovanna, l’abito maschile in un certo senso ne cancellava la verginità, questa da sola rappresentava il più alto picco della religiosità, ma il continuo intromettersi della Pulzella negli affari secolari, per di più in un abito che non si confaceva al suo sesso, spostava la visuale dalla considerazione canonica della verginità ad una sorta di revisione della sua propria eterosessualità.
Anke Bernau offre un’altra ipotesi riguardo al problema della verginità. Afferma infatti che la verginità simbolizza la stabilità nel pensiero Cristiano, ed è la metafora per eccellenza, essendo le metafore strettamente legate all’idea di ciò che è corretto e di ciò che non lo è. Per questo i contestatori di Giovanna si riallacciavano alla scelta dell’abito maschile per dimostrare la loro tesi: sarà anche stata vergine e casta, ma il suo abbigliamento era una chiara spia delle sue tendenze “innaturali”, simbolizzate dal fatto che aveva rifiutato, con le vesti femminili, il suo stesso genere.[25] E’ chiaro che ai fini della sua missione, per Giovanna era molto più conveniente assumere il ruolo di cavaliere che non quello di contadina, tuttavia è troppo superficiale ritenere che la decisione di indossare l’abito maschile fosse dettata solamente da una scelta di mera convenienza, vista soprattutto la sua volontà di non rinunciarvi in prigione. In particolare la testimonianza di Giovanna riguardo alla sua condotta sul campo di battaglia è un contesto interessante per valutare l’identità di genere da lei espressa nel corso del processo. L’immagine della Pulzella infatti, non collima esattamente con quella del guerriero. Questo concetto si esemplifica quando i giudici le domandano se preferisse il suo stendardo o la sua spada. A questo quesito Giovanna risponderà di amare quaranta volte di più il suo stendardo, che portava in battaglia al posto della spada “perché non volevo uccidere il prossimo. Non ho mai ucciso nessuno”[26] . E’ vero che aveva una spada della quale riconosceva la validità “ (…) era una buona spada per la guerra e andava benissimo per menare botte e fendenti”[27] , ma la usava più che altro come minaccia contro i soldati disobbedienti e la prostitute che a quei tempi seguivano le compagnie di soldati nel corso dei loro spostamenti.[28] Giovanna quindi non rinuncia all’immagine di se stessa come combattente, ma si distanzia dal ruolo del guerriero tradizionale, rifuggendo dalla violenza delle uccisioni e preferendo lo stendardo alla spada.
Il continuo nominare e disquisire sulla questione dell’abito da parte dei giudici (che vedono l’ostinazione della Pulzella nell’indossarlo come una chiara violazione dei principi espressi nel Deuteronomio) e l’irremovibilità di Giovanna dalla sua posizione proverebbero, secondo la Crane, che l’abito esprime il genere. In realtà la Pulzella si era adattata con sorprendente facilità all’abito maschile e questo è dimostrato in diverse occasioni, ad esempio quando aveva affermato che alla corte del Delfino, di fronte all’apparizione di San Michele “mi sono inginocchiata e mi sono tolta il cappello”[29] , o quando durante il processo affermò: “elle ayme mieulx l’abit d’omme que de femme” ( preferiva gli abiti da uomo a quelli da donna)[30] . Questo suo adattarsi così facilmente non solo agli abiti, ma anche ad una gestualità tipicamente maschile aveva già dal principio della sua missione generato dubbi riguardo la sessualità di Giovanna. Già al suo arrivo alla corte del Delfino, Giovanna, che asseriva già da allora la sua vocazione alla verginità, era stata visitata da alcune donne. Se il suo genere non era messo in dubbio, dato che dal suo sembiante appariva chiaro che era una donna, tuttavia i suoi abiti e il suo comportamento mascolino avevano già allora spinto i suoi sostenitori a farla visitare per determinare, secondo quanto asserito dal suo confessore, Jean Pasquerel, “se era un uomo o una donna, se corrotta o vergine. Fu trovata donna e vergine e pulzella”[31] . Giovanna del resto non rifiuta l’immagine di se stessa come donna, ma respinge i tradizionali incarichi e ruoli femminili per incamminarsi sulla strada della visionaria. Riguardo ai lavori donneschi afferma “que il ya assés autres femmes pour ce faire” ( non mancano donne che ci si dedichino).[32] Contemporaneamente tuttavia dimostra un certo rimpianto per la figura della madre e per la casa paterna, che stride con la fermezza dimostrata nel compiere la sua missione e combattere gli inglesi. Durante il processo infatti affermerà: “Datemi un vestito da donna per andare da mia madre; lo indosserò, così potrò uscire di prigione”[33] . Vi è dunque una curiosa dicotomia tra lo spazio domestico caratterizzato dalla presenza della madre e dall’accettazione delle vesti femminili e lo spazio pubblico, occupato dall’abito maschile e dalla lotta agli Inglesi. Non abbiamo a disposizione molti elementi sul pensiero medievale riguardo il lesbismo o la bisessualità, ma di certo Giovanna si trovava in una situazione ambigua, in costante oscillazione tra la contadina ignorante e il capo militare carismatico e la differenza tra i due poli è pesantemente segnata dalla questione dell’abito. Per i giudici La Pulzella si trova a contaminare entrambi i generi senza occuparne in modo fisso uno. Questo è esemplificato dagli atti del processo di condanna, dove gli ecclesiastici la accusano di portare i capelli tagliati sopra le orecchie come un uomo: “non è rimasto nulla sulla tua persona che riveli il sesso al quale appartieni, eccetto quello che la natura stessa ti ha conferito”.[34] Soltanto Christine de Pisan dimostra di apprezzare il “dualismo” di Giovanna: nella sua opera, il Ditié de Jeanne d’Arc (1429), usa spesso aggettivi maschili per riferirsi alla Pulzella, ma Giovanna più che un essere innaturale è un qualcosa di soprannaturale, che va al di là dell’umano e del genere in virtù della grazia di Dio “Véez bien chose oultre nature!” (Ecco una cosa oltre natura!).[35] Riguardo ai dubbi inerenti il genere e la sessualità di Giovanna, Régine Pernoud afferma che tutto ciò che intende mettere in dubbio la sessualità della Pulzella è privo di fondamento, perché basato su pochi lacerti di documenti lacunosi. La studiosa asserisce infatti che “c’è chi spiega in tutta serietà che Giovanna era in realtà un uomo, o chi si accontenta di vedere in lei un ragazzo mancato”. Spiega inoltre che questi dubbi si fondano solamente sulla testimonianza di Jean d’Aulon, l’attendente della Pulzella, che si riferivano al fatto che aveva sentito alcune donne dire che non avevano constatato in lei la presenza del ciclo mestruale. La Pérnoud la ritiene una supposizione “futile”, perché di seconda mano e riferita dopo trent’anni, quindi non può diventare una certezza da cui trarre logiche conclusioni.[36] Vale la pena precisare che la stesura dei verbali latini del processo, compiuta da Thomas de Courcelles sulla base della minuta francese, mostra alcune incongruenze, infatti nella prima stesura, quando venne chiesto a Giovanna se conosceva qualche arte o mestiere ella rispose: “Sì. So filare e cucire. Per filare e cucire non temo certo nessuna donna di Rouen”[37], diventa chiaro che vi era una certa tendenza a eliminare le espressioni di empatia di Giovanna nei confronti delle donne, infatti nella trascrizione latina degli atti del processo il riferimento al desiderio di visitare la madre, presente nella minuta francese “Datemi un vestito da donna per andare da mia madre ; lo indosserò, così potrò uscire di prigione”[38] è eliminato, lasciando in rilievo solo la parte del discorso inerente alla rivalità verso le donne di Rouen. Le censure di Courcelles sono, secondo Susan Crane, la prova evidente che i giudici erano convinti che il modo di vestire mascolino della Pulzella fosse la spia di una perdita di tratti di femminilità generale che la distanziava dalla norma eterosessuale, allungando le distanze tra il passato nel quale lei stessa si atteneva alla suddetta norma, per arrivare alla complessità presente. Appare comunque evidente che Giovanna, pur rifiutando di svolgere compiti donneschi, aveva sempre mantenuto legami di empatia con le donne. A questo proposito si può citare un episodio menzionato da Larissa Juliet Taylor, e cioè un fatto accaduto prima della prigionia a Rouen, mentre la Pulzella si trovava a Le Crotoy, ove venne a farle visita un gruppo di donne di Abbeville, un paese poco distante. La Taylor sottolinea che nessuna donna aspirava a ricoprire un ruolo di tipo militare come faceva Giovanna, ma la ragazza era considerata una sorta di modello al quale ispirarsi. La Pulzella le ringraziò della loro sollecitudine e le invitò a pregare per lei.[39]
Giovanna fu catturata dai Borgognoni nel Maggio del 1430 e venduta agli inglesi in Novembre. Nel corso dei mesi successivi dovette sostenere un processo per eresia a Rouen, orchestrato dagli inglesi con la connivenza del vescovo di Beauvais Pierre Cauchon. Fu condannata per eresia nel Maggio 1431 ed abiurò pubblicamente nel cimitero di St. Ouen, ma venne considerata relapsa per aver ritrattato qualche giorno dopo, come s’è accennato in precedenza, indossando nuovamente l’abito maschile che aveva giurato ai giudici di dismettere, ciò dopo che le “voci” l’avevano rimproverata per il “miserabile tradimento (…) commesso accettando di rinnegare e di ritrattare tutto per paura della morte”.[40] Fu quindi dichiarata eretica relapsa e bruciata sul rogo dalle autorità secolari il 30 Maggio.
Continuativamente nel corso del processo, Giovanna si rifiutò di rinunciare all’abito maschile, creando per questo motivo una costante tensione con i giudici, per i quali, come già detto, l’abito era il simbolo dell’ambigua identità di genere della ragazza. Secondo la Crane, le reazioni dei contemporanei di Giovanna (sia dei suoi sostenitori che dei suoi detrattori) in relazione al suo abito sono più in contrasto che in conformità con la testimonianza della Pulzella. Per i suoi propugnatori, ella con l’uso che faceva dell’abito maschile richiamava alla mente Camilla e le Amazzoni e le grandi figure femminili della Bibbia, Deborah ed Esther. I suoi avversari, al contrario, citavano le proibizioni del Deuteronomio e gli ammonimenti di San Paolo che affermava che i capelli delle donne sono il velo della loro modestia. Tuttavia, afferma la Crane, le dichiarazioni di Giovanna riguardo all’abito maschile sono molto più avvincenti di quelle dei suoi contemporanei, e portano ad una revisione del “genere” che è proprio della Pulzella, e di lei soltanto, e può essere considerato uno dei suoi atti più significativi.
Dopo essere stata arrestata e tradotta in prigionia, sappiamo che le condizioni in cui versava Giovanna erano aspre e severe; la Pulzella era guardata a vista da guardie inglesi giorno e notte. Secondo un testimone del processo di riabilitazione, le guardie avrebbero tentato di stuprarla, ed altri testimoni giustificano la ripresa degli abiti maschili dopo l’abiura con il fatto che le guardie le avevano portato via le vesti femminili, che l’avevano importunata e che un lord inglese aveva cercato di farle violenza. Altri suoi sostenitori ritenevano che la sua decisione di mantenere sempre l’abito maschile fosse legata alla sua vocazione di castità. Tuttavia la questione rimane poco chiara, infatti Giovanna dormiva svestita sia sul campo di battaglia che in prigione[41] e non usò mai durante il processo il timore di violenze sessuali per giustificare la sua decisione di mantenere l’abbigliamento maschile. Fu soltanto dopo aver abiurato ed essere diventata relapsa che la Pulzella cominciò a giustificare il suo portare l’abito maschile con le condizioni alle quali era costretta in prigione affermando: “Mi sembra sia più conveniente, finché sto in mezzo a uomini”. Giovanna affermava inoltre di averlo ripreso perché i suoi giudici avevano disatteso le loro promesse “ (…) voi non avete mantenuto la vostra promessa di lasciarmi sentire messa, di fare la comunione e di togliermi questi ceppi”[42]. Marina Warner sceglie di collocare Giovanna nel campo dell’androginia, affermando che ella aveva travalicato entrambi i generi, per essere come gli angeli[43]. Ma l’androginia per sua stessa definizione travalica i limiti della sessualità, mentre la Pulzella al contrario assume un comportamento che non collima né con la femminilità né con la mascolinità.
L’ultimo tentativo fatto dai giudici per controllare Giovanna fu proprio mandarla al supplizio con un abito femminile, dimostrando di essere convinti del fatto che l’abito maschile era un simbolo politico di resistenza agli Inglesi quanto una spia della sua sessualità.
L’abito e il genere alla luce dei “Queer studies”[44]
I cosiddetti Queer studies si sono sviluppati verso la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Rappresentano quindi un indirizzo di ricerca molto recente, inizialmente volto ad altre epoche e tematiche rispetto a quella medievale. Riguardo al Medioevo, l’intenzione è mostrare come personaggi e situazioni esemplifichino la costruzione “sociale” dell’identità e le interazioni tra le differenti identità “di ruolo”. I Queer studies si concentrano nell’esplorare i metodi attraverso i quali la società etichetta i singoli individui come uomini, donne, mascolini, femminili, ma anche omosessuali, eterosessuali ecc… Procederò ora ad elencare e commentare gli studi compiuti da alcuni autori in questi ambiti, perché lo ritengo significativo per capire meglio (o almeno cercare di capire) l’importanza che Giovanna d’Arco dava ai suoi indumenti e il modo in cui lei stessa, attraverso essi, plasmò la sua identità di genere. Eve Sedgwick nel suo lavoro “ The epistomology of the closet” fa alcune distinzioni tra sesso, genere e sessualità. La studiosa afferma infatti che vengono spesso usate come sinonimi, quando in realtà hanno significati ben diversi e distinti. Infatti secondo lei, ogni individuo che nasce ha due possibilità riguardo al sesso: può nascere maschio o femmina. Tuttavia, il sesso del nascituro è solo il materiale grezzo su cui si basa la costruzione sociale del genere. Questo significa che la società stessa tende a dare un genere ad ogni individuo, che è tuttavia meramente basato sul sesso cromosomico e non sull’attento esame dei comportamenti della singola persona. La Sedgwick afferma inoltre che il genere è culturalmente mutabile e variabile. Questo tuttavia è vero solo in potenza, in quanto la società collega immediatamente al sesso biologico un genere ben determinato, creando così le categorie di ciò che è “mascolino” e ciò che è “femminile”. Per la società quindi, il genere non è qualcosa di flessibile ( e credo che il caso di Giovanna d’Arco sia emblematico). Un altro punto interessante secondo me, che può aiutare a comprendere l’insistenza dei giudici nel nominare così sovente nel corso del processo e nel dare una tale importanza all’abito maschile e al genere “instabile” di Giovanna è esplicato da Foucault nel suo saggio “ The Repressive Hypothesis” (The History of Sexuality, vol. 1 1978), nel quale descrive la nozione secondo la quale le istituzioni esercitano una sorta di potere di normalizzazione sugli individui, facendo così di loro dei soggetti sottomessi alle istituzioni stesse. Questo si esemplifica per esempio osservando chi si veste in abiti da uomo ( come a mio parere nel caso della Pulzella) o chi predilige gli abiti femminili; costoro dimostrano una “resistenza” ed un riadattamento del genere e della sessualità. Questi individui, attraverso i loro comportamenti, secondo Butler, sono la prova che tutti i metodi di auto identificazione sono mere performance, quindi dobbiamo accettare l’idea che qualunque cosa di “naturale” inerente al genere è una fantasia. Giovanna d’Arco aveva quindi probabilmente plasmato una nuova identità di genere per se stessa, scegliendo di portare l’abito maschile e di tagliare i capelli corti. E’ forse esagerato fare delle ipotesi riguardo alla sua sessualità, dato che non abbiamo fonti ed informazioni che possano ragguagliarci al riguardo, dovremmo incamminarci sulla strada dell’ipotesi e dell’idea, ma possiamo affermare con una certa sicurezza che Giovanna, così come con il voto di castità aveva assunto l’identità di Pulzella, attraverso l’uso degli abiti maschili si era allontanata dalle sue contemporanee, creando un’ identità di genere che si distaccava nettamente dalla norma femminile del suo tempo . Un altro esempio di studiosa che utilizza i Queer Studies ricollegandoli alla storia è Susan Crane (“The Performance Of Self: Rituals, Clothing and Identity during the Hundred Year War, 2002”) che esplora l’uso degli abiti e degli accessori personali come estensioni del corpo nella formazione dell’identità. La Crane presta particolare attenzione nel suo lavoro al ruolo giocato dall’abbigliamento nella presentazione fisica di se stessi affermando che gli abiti indicano la posizione sociale, l’età, il genere e perfino la stagione. Sia l’élite che la classe artigiana e contadina sperimentavano su se stessi l’importanza che aveva l’abito. Ad esempio i nobili si distinguevano tra loro grazie agli stemmi araldici che portavano ricamati sugli abiti e la legge prevedeva che certi tipi di tessuti come la pelliccia, spesso usata da Giovanna come capo di abbigliamento, (come ho già detto precedentemente), fossero appannaggio esclusivo di persone di un certo tipo di rango. Tutto questo dimostra il grande rilievo degli abiti ed il loro eminente valore sociale nella costruzione dell’identità nel quindicesimo secolo. Il caso della Pulzella lo comprova chiaramente ed in modo talmente significativo da segnare considerevolmente i vari periodi della sua vita; cominciare ad indossare l’abito maschile aveva segnato l’inizio della sua Missione, e fu ancora l’abito maschile a sancirne la fine, quando fu inserito tra i principali capi d’accusa nel processo di condanna.
Riprendendo brevemente il discorso della sessualità, è importante sottolineare che alcuni studiosi contemporanei come Franco Cardini, seppure estranei al campo di studio dei Queer Studies, hanno cercato di avanzare, seppure timidamente, alcune ipotesi riguardo alla presunta sessualità di Giovanna. In particolare Cardini ricollega la Pulzella al paradigma eterosessuale affermando che nelle testimonianze del processo di riabilitazione del 1456, vi sono alcuni elementi (l’abitudine di lei nel chiamarlo “bel duca”, il fatto che amassero giostrare insieme) che porterebbero ad immaginare una sua particolare predilezione di tipo sentimentale per Giovanni I Duca di Alençon, arrivando addirittura a parlare di colpo di fulmine.[45] E’ curioso però che lo studioso non citi la testimonianza di Alençon il quale affermava che pur stimando Giovanna come una “buona cattolica e donna onesta”, spiava furtivamente il suo seno quando questa si preparava per la notte, pur affermando di non provare alcun desiderio di tipo carnale per lei[46]. Non è forse troppo azzardato affermare che il presunto interesse della Pulzella è dimostrato da indizi troppo vaghi e refrattari e che quello del Duca non mostra di differire da quello che in quelle circostanze avrebbe provato per qualunque donna.
Giulia Bordonali
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Gli abiti di pregio donati dal delfino a Santa Giovanna non erano stati da Lei accettati come un desiderato bene di lusso ma come dono recato in segno di gratitudine.La Sua fermezza nel conservare l’abito maschile non è “ostinazione” ma fedeltà alle Sante voci che imposero l’uso di quest’abito per proteggere la Sua purezza.