Erano chiamati Goumiers i soldati del C.E.F (Corps Expeditionnaire Français) agli ordini del generale Alphonse Juin. I Goums – traslitterazione francese del termine arabo “qum” (villaggio, clan) – erano dunque gruppi non inquadrati in formazioni regolari e composti di una settantina di uomini circa, esperti in tattiche di guerra in zone montuose. Vennero scelti, proprio per questa prerogativa, come truppe d’assalto per portare l’attacco finale alle difese tedesche asserragliate attorno a Cassino. Si sostiene che il generale Juin, prima della battaglia, promise a queste truppe cinquanta ore di totale licenza in caso di vittoria1. Terminata e vinta la battaglia, il 17 maggio, circa 7000 Goumiers si diedero alla devastazione, alla razzia, all’omicidio e allo stupro dell’intera popolazione civile della Valle del Liri e di tutto il Basso Lazio.
Definizione del termine ” marocchinate “
Una valida definizione del termine “marocchinate”, di conseguenza, potrebbe essere quella che ci restituisce come significato “sottoporre a stupro, a violenza carnale, con riferimento agli episodi di violenza compiuti dai soldati marocchini nei confronti delle popolazioni dell’Italia centr. e merid. durante l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale”2, circoscrivendo così le marocchinate solamente a quegli stupri di massa avvenuti nei giorni successivi alla battaglia di Montecassino3. La Storia, tuttavia, ci suggerisce la possibilità di allargare il campo degli esempi di “marocchinate” – se intendiamo il termine come equivalente a “stupri di guerra” – a svariati scenari di guerra che, nel corso di tutto il ‘900, hanno visto messa in pratica la barbara e spietata “arma” dello stupro: quelli perpetrati dai tedeschi durante l’invasione del Belgio nell’agosto del ’17, quelli dei soldati neri francesi nella Renania occupata durante gli anni Venti, il famigerato atto nipponico conosciuto come Massacro (o Stupro) di Nanchino del 1937, gli episodi già ricordati dei Goumiers nel Centro Italia nel 1944 e, non ultimi, gli stupri di massa avvenuti nel corso delle guerre che hanno insanguinato l’ex-Jugoslavia dal 1991 al 1999.
Lo “stupro di guerra”
Teoricamente lo stupro di guerra e la schiavitù sessuale sono riconosciuti dalle convenzioni di Ginevra4 “crimini contro l’umanità” e “crimini di guerra”. Lo stupro è anche affiancato al crimine di genocidio quando commesso con l’intento di distruggere un gruppo specifico di individui5. Riprendendo il caso dei soldati marocchini6, possiamo osservare come l’esercito francese non si curi di rispettare quella Convenzione che, per mano del suo Presidente della Repubblica, aveva sottoscritto all’Aja il 18 ottobre 1907. Alla legge si rifacevano però quelle persone cui era stata usata violenza e che, recatesi dai Carabinieri o direttamente dalle autorità militari francesi, sporgevano denuncia contro i propri carnefici.
Marocchinate ed altri “stupri di guerra” in Italia durante la seconda guerra mondiale e conseguenze postbelliche
La prima formale protesta italiana contro di loro venne inoltrata dai vertici della polizia italiana alla Commissione Militare Alleata all’inizio del ’44 per segnalare “la frequenza di reati, specie di rapine e a volte anche di violenze carnali, da parte di militari delle Truppe Alleate” 7 e per chiedere se non la totale eliminazione dei reati almeno una loro sensibile diminuzione. Bisogna aspettare il 1951 per vedere l’intervento in massa di donne vittime delle violenze alleate durante il “Convegno per la rinascita della zona della battaglia di Cassino”, organizzato dal PCI: “qualcuna di loro parlò delle bestialità dei marocchini e delle 60.000 pratiche inevase di altrettanti uomini e donne che subirono violenze indicibili da parte delle truppe di colore”8. A conflitto concluso, la Francia concesse fino a un massimo di 150.000 lire di indennizzo ma nel 1947 bloccò i pagamenti. Intervenne allora lo Stato italiano che stornò i fondi dai 30 miliardi che avrebbe dovuto corrispondere alla Francia come riparazioni di guerra9. Delle 60.000 vittime – tale, almeno, è il numero delle pratiche per la richiesta di risarcimento presentate allo Stato italiano10 – cercò di occuparsi la Camera dei deputati quando, il 7 aprile 1952, si riunì in seduta per discutere l’interpellanza dell’onorevole Maria Maddalena Rossi, esponente del PCI e segretaria dell’UDI (Unione Donne in Italia), volta a richiedere “una legge speciale che consentisse cure e assegni vitalizi adeguati”11. L’esito finale della discussione parlamentare fu quello di corrispondere la pensione di guerra solamente alle vittime che, avendo contratto una qualche forma di malattia venerea, potessero dimostrare concretamente la violenza subita. Ponzani nota come, negli anni in cui iniziano a emergere le testimonianze delle vittime, la psiche delle stesse elabori un interessante processo psicologico. Si radica nella mente della popolazione colpita dalla violenza delle truppe marocchine l’immagine del “tedesco buono”: questa convinzione “non è altro che un meccanismo di difesa messo in moto dalla memoria per elaborare quanto accaduto successivamente con l’arrivo delle truppe marocchine; è il ribaltamento di una realtà di orrori che non può essere superata con la ragione, una sorta di inconscio conflittuale che rende incapaci di leggere gli eventi con chiarezza e oggettività”12. Questo processo mentale è lo stesso che porta i testimoni a ricordare di come i tedeschi portassero via “solo” il bestiame e i viveri ma rispettassero le donne; i marocchini, al contrario, “si sono lanciati su di noi con demoni scatenati, hanno violentato, minacciando con mitragliatrici, bambine, donne, ragazzini, susseguendosi come bestie nei turni”13. Solo a posteriori, tuttavia, possiamo capire in per quale motivo i tedeschi esercitarono la “bontà” in quei mesi e in quei territori: il comportamento corretto delle truppe naziste era dettato dal fatto che le esigenze militari – l’estrema difesa di un punto strategico tanto importante – dimostravano necessaria una buona convivenza con la popolazione autoctona. Sappiamo, infatti, che di lì a qualche mese le forze tedesche nel Centro e nel Nord Italia iniziarono una serie di rastrellamenti volti nel contempo a debellare il fenomeno partigiano e a preparare una facile ritirata per rientrare nei propri confini. Così anche in ambito nazi-fascista abbiamo esperienze di “marocchinate”. Un esempio: nel novembre 1944 i comandi tedeschi dispongono il trasferimento in Oltrepò di “alcune migliaia di Caucasians”14 della 162^ Divisione che, affiancati da elementi tedeschi e repubblicani, avrebbero dovuto compiere rastrellamenti e attività anti-partigiane. Gli uomini della Turkestan – così era denominata la 162^ – presero posizione verso la metà del mese e il 23 novembre 1944 iniziarono il rastrellamento. Le testimonianze riportano la “prima drammatica novità: la violenza alle donne, praticata sistematicamente dai “mongoli” – come vengono subito sbrigativamente definiti –”15. Per punire la popolazione civile che dava sostegno alle formazioni partigiane in Oltrepò lo stupro viene qui usato come un castigo (…) che vuol essere esemplarmente deterrente, così da spezzare ogni rapporto tra civili e ribelli”16. Perpetrato da chicchessia, ad ogni modo, “lo stupro costituisce una colpa inconfessabile da parte degli aggressori, tranne quando può essere letto come ritorsione o rappresaglia”17. Se l’operato in Oltrepò della Turkestan ci mostra lo stupro come arma per rappresaglia, altri due esempi indicheranno chiaramente che le violenze carnali possono acquistare, in un contesto bellico, un significato di ritorsione e, quindi, rendere l’atto stesso giustificabile.
Marocchinate e stupri di guerra in altri paesi
Il primo caso è quello delle violenze che le truppe di colore compirono sulle donne tedesche nella zona del Reno, presidiata dai francesi in seguito ai trattati di Versailles. “Tra le umiliazioni inferte alla Germania, quella delle donne violate nei confini occidentali tanto contesi, nel cuore dell’Europa, si rivela particolarmente odiosa e insopportabile”18. La violenza carnale qui diventa “umiliazione definitiva, colpo di grazia sessuale”19. Fattorini sostiene che, durante e subito dopo la prima guerra mondiale, il razzismo e l’animosità nei confronti del nemico, veicolati dalla propaganda e interiorizzati grazie agli stereotipi, trasformarono lo stupro bellico in possibilità di rivalsa per un popolo già sottoposto a tale punizione: gli atti di violenza carnale in Renania, denominati dalle vittime tedesche “onta nera”20, veirificatisi a partire dal 1920, furono giustificati da parte francese come reazione a quegli identici atti compiuti dalle truppe tedesche che invasero il Belgio nel 1917. Giustificazione individuata nuovamente per le violenze dei Goumiers nel ’44: alcuni intravedono nel comportamento del Comando francese una volontà di punire l’Italia per la “pugnalata alle spalle” di Mussolini del 10 giugno 1940. Nella dichiarazione di guerra alla Francia, nei conseguenti bombardamenti di Blois senza necessità militari e nei mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira, dovrebbe quindi individuarsi una genesi delle marocchinate. Altra testimonianza è quella di un sergente dell’esercito americano che afferma “Credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa”21.
Riflessioni finali
L’esempio di Esperia mostra chiaramente, tuttavia, come in una situazione di guerra lo stupro non sia inteso solamente come ritorsione, come vendetta: in questo episodio è chiaro il modo in cui i carnefici intendano le vittime come parte di quel bottino che spetta loro in seguito alla vittoria. A partire dalle epoche antiche, infatti, la donna è considerata come bottino di guerra: si pensi all’Iliade e al rifiuto di Achille di scendere in battaglia dopo esser stato privato della schiava Briseide22; si guardi altrimenti alla Legge biblica, in cui è scritto “Il Signore, Iddio tuo, (quelle città) te la darà nelle mani e allora metti a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, portalo via con te e goditi il bottino dei tuoi nemici, che il Signore, Iddio tuo, ti avrà dato”23. Due culture, quella greca e quella veterotestamentaria, che stanno alla base di quella cristiano-europea e che ne hanno sicuramente influenzato il giudizio per quanto riguarda il “valore” della donna: intesa come bottino di guerra, essa stessa si vedeva equiparata a un oggetto con un proprio, specifico valore economico e commerciale. Sia in tempo di pace che di guerra, così, il risultato di un crimine nei confronti di una donna era semplicemente classificabile come un crimine contro la proprietà: tale crimine consisteva nel sottrarre una donna dai legittimi proprietari e, nel caso in cui fosse vergine, lo stupro ne distruggeva irrimediabilmente il valore economico, provocando peraltro l’accantonamento sociale della famiglia di appartenenza. Con l’andare dei secoli, i primi tentativi di legiferazione a favore di una normalizzazione della guerra, si arriva a una tutela della donna che, tuttavia, è ancora considerata parte di quel grande contenitore concettuale denominato “popolazione civile”: i documenti delle convenzioni stilati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, non riguardano specificamente la donna. Per esempio, nella IV Convenzione dell’Aja (1907) erano previste tutele nei confronti di civili, volte a salvaguardare in uno stato di guerra la loro vita e la loro proprietà24. Tuttavia non si arriva ancora a una legge che inscriva lo stupro bellico nei reati perseguibili a livello internazionale. Le guerre nell’ex-Jugoslavia portano a una definitiva legislazione per questo tipo di crimine. Nel 1996 “la Corte delle Nazioni Unite all’Aja ha annunciato, per la prima volta dai tempi di Omero, che otto sbirri serbi saranno processati con l’accusa di avere violentato donne musulmane bosniache, nei giorni della guerra civile nell’ ex Jugoslavia. (…) Lo stupro, da “diritto di guerra”, diventa reato di pace. ‹‹E’ una pietra miliare nella storia del diritto›› ha detto Cristian Chartier, portavoce della Corte dell’ Aja ‹‹perché gli otto imputati sono accusati di stupro e non di altri reati››”25. Un argomento così delicato tocca nel profondo identità, cultura e costumi di interi popoli: proprio per questo la Storia riemerge, talvolta, dalle pagine dei libri ed entra nel quotidiano, facendosi notizia e dando scandalo. È quello che successe con le marocchinate laziali. A partire da questi episodi uno scrittore prima, Moravia26, e un regista poi, De Sica27, cercarono di raccontare una porzione di Storia indelebile nella memoria di chi aveva subito tali violenze e che, ancora oggi, non le ha dimenticate. Il 2 novembre 2012 è stata sfregiata una stele in ricordo dei soldati francesi morti durante la seconda guerra mondiale, posta a Pontecorvo (FR): un sacco nero a coprire il monumento e una testa di maiale sistemata al posto dei fiori28. Chiaro esempio, questo, di come le ferite possano rimanere sempre aperte – si ricordino i casi di “stupri di guerra” utilizzati come atto di ritorsione da parte di chi già un atto tale l’aveva subito – e di come difficilmente il tempo possa rimarginarle. Da una parte, lo Stato dovrebbe impegnarsi per tutelare i diritti di quella parte di popolazione vittima di queste violenze e cercare di punire i colpevoli appellandosi a organizzazioni e tribunali sovranazionali, dall’altra, tuttavia, vediamo come la Storia, talvolta, tenda a riproporre eventi che, in luoghi e tempi diversi, mantengono un certo tipo di somiglianza tra loro, se non nella modalità d’esecuzione di un atto, almeno nelle conseguenze che l’atto stesso lascia dietro di sé. Usare, come aggettivo, “marocchinate” o “stuprate” cambia, in realtà, ben poco per le vittime: ogni volta che avvengono fatti di tale portata siamo obbligati a prescindere la nazionalità, la religione e l’etnia di chi subisce violenza. La sfida che si pongono gli stati, tramite le legiferazioni delle convenzioni internazionali, è quella di esercitare la giustizia in modo tale da restituire a ogni persona “marocchinata” “la concretezza della loro vita, schiacciata dalla violenza (…) e ridotta ad icona massmediologica”29. Un problema, in definitiva, di memoria condivisa: infatti “la memoria storica è vaga e tra le classi più giovani tende a spegnersi definitivamente, proprio per il pudore che ha spinto chi ha vissuto l’epoca dei ‹‹marocchini›› a tacere”30.