La situazione geopolitica dei Balcani tra il 1940 e il 1943
Come la storiografia dell’ultimo decennio ha dimostrato1, il progetto espansionistico del fascismo contemplava il controllo del Mediterraneo, un’aspirazione che spiega sia l’attacco alla Francia per minarne l’impero, sia la guerra nei Balcani. Esso ebbe inizio con la cosiddetta «guerra parallela», attraverso la quale Mussolini mirava a portare a termine le conquiste territoriali non portate a termine nel 1918, a rafforzare la propria immagine di fronte all’opinione pubblica italiana e a ritagliarsi un proprio spazio d’azione nei confronti degli alleati tedeschi.
L’occupazione italiana dei Balcani, dall’aprile del 1941 al settembre del 1943, vide impiegati circa 650000 soldati del Regio esercito, suddivisi in dieci corpi d’armata. Essa fu preceduta nel 1939 dalla conquista dell’Albania, che, nei piani del duce avrebbe dovuto costituire una sorta di testa di ponte, per l’ulteriore espansione italiana nell’area balcanica, e dall’attacco sferrato alla Grecia il 28 ottobre 1940, che avrebbe dovuto rappresentare il momento del riscatto per il regime. In realtà, l’impresa si trasformò molto presto per l’Italia in una catastrofe militare: la tenace resistenza greca mise in serie difficoltà l’impreparato esercito italiano, rendendo necessario l’intervento della Wehrmacht e, di conseguenza, ridimensionando la posizione politico-militare dell’Italia fascista di fronte alla Germania nazista. Il 6 aprile 1941, l’intervento congiunto delle potenze dell’Asse e dei loro alleati danubiano-balcanici ungheresi e bulgari determinò dopo due sole settimane il crollo militare della Grecia e il collasso della Jugoslavia, che dal 27 marzo era nel mirino dell’operazione «Castigo».
Al termine dell’operazione, il territorio ellenico fu spartito tra Germania, Bulgaria e Italia: a quest’ultima fu assegnata gran parte della Grecia (fatta eccezione per Salonicco, Atene, il Pireo, Creta e quasi tutte le isole dell’Egeo, aree che passarono sotto il controllo tedesco; nonché per la Macedonia orientale e la Tracia che furono annesse dalla Bulgaria).
Nei territori jugoslavi, invece, l’occupazione italiana riguardò la “provincia” di Lubiana, la Dalmazia (isole comprese), il Montenegro, il Kosovo, la Metohija e la striscia sud-occidentale del territorio formalmente appartenente allo Stato Indipendente Croato filo-fascista (Nezavisna drzava Hrvatska, NDH) di Ante Pavelić.
L’Italia monarchico-fascista amministrò le diverse aree balcaniche che aveva ottenuto con differenti modalità. Dalla Grecia vennero staccate le isole Ionie, destinate ad essere annesse al Regno d’Italia e gestite temporaneamente come una sorta di colonia, e tre province dell’Epiro settentrionale (Joannina, Tesprozia e Prespa) che vennero unite all’Albania, già incorporata nel Regno d’Italia; il resto del territorio fu assoggettato al regime di occupazione militare, fatta eccezione per Atene dove venne insediato un governo collaborazionista, presieduto dal generale Georgios Tsolakoglou. Per quanto riguarda la Jugoslavia, invece, la “provincia” di Lubiana (cioè la parte occidentale della Slovenia) e la Dalmazia furono annesse all’Italia; il Montenegro fu eretto in Regno formalmente autonomo ma divenne di fatto un protettorato italiano; il Kosovo e la Metohija furono aggregati all’Albania; infine, la Croazia sud-occidentale venne retta dai militari in condominio formale con le autorità Ustaša di Zagabria.
In tutti i territori annessi fu attuata l’italianizzazione forzata e venne interamente smantellato il sistema politico e amministrativo preesistente; in Croazia e in Montenegro, invece, la pur limitata indipendenza concessa garantiva, da un lato, la possibilità di uscire dall’impasse di un’occupazione militare permanente di tipo coloniale, con tutti i costi che quest’ultima avrebbe comportato; dall’altro, di presentare «l’ordine nuovo» fascista come un modello più accettabile del duro regime d’occupazione militare tedesco. Nel progetto mussoliniano, l’occupazione militare avrebbe dovuto essere sostituita nel tempo da un’amministrazione dei territori balcanici basata anche su amicizie naturali o dinastiche, per le quali il modello sarebbe stata l’unione tra Italia e Albania.
Tuttavia, l’occupazione effettiva dei Balcani non corrispose a quanto previsto nei piani espansionistici del regime. Da un lato, Mussolini dovette ben presto fare i conti con gli interessi tedeschi di penetrazione economica e finanziaria in quell’area2; dall’altro, il sorgere sia nelle zone annesse che in quelle occupate di forti movimenti di resistenza armata e politica3 contro l’invasore fece sì che per le truppe italiane il controllo del territorio divenisse il principale problema da affrontare e che, quindi, l’apparato repressivo acquistasse un peso sempre maggiore nella gestione quotidiana delle cose.
Venuta meno la prospettiva di un’amministrazione accettata dalla popolazione, l’unica via di uscita per l’Italia fu l’occupazione diretta: per mantenerla, come vedremo, il regime usò tutti i mezzi necessari, dalla collaborazione con le milizie locali alla repressione e alle violenze di massa, dalle deportazioni di popolazioni fino alla creazione di campi di internamento per civili.
L’occupazione tra repressioni, deportazioni e internamenti
Per affrontare l’analisi del sistema d’occupazione fascista sperimentato in Jugoslavia, sono necessarie due premesse. In primo luogo, occorre vedere che cosa ci fu all’origine dell’occupazione, in particolare, quale ne fu il retroterra storico e culturale e quali fattori la influenzarono principalmente. In secondo luogo, conviene tenere in considerazione la peculiarissima situazione dello Stato jugoslavo, dilaniato al suo interno da molteplici conflitti etnici e religiosi, che la specifica strategia militare adottata dal Regio esercito cercava di fronteggiare.
Secondo Eric Gobetti, alla base della politica d’occupazione fascista nello Stato Indipendente Croato, vi erano due presupposti fondamentali: «l’ignoranza razzista e la debolezza militare»4.
Da un lato, i documenti coevi e la memorialistica mostrano l’ottica razzista con la quale, soprattutto gli ufficiali, guardavano alle popolazioni Jugoslave: queste erano giudicate, infatti, complessivamente inferiori, barbare, arretrate e violente. Del resto, molti tra gli ufficiali avevano avuto recenti esperienze coloniali e tendevano a guardare alla situazione balcanica con una prospettiva analoga. Si può però dire qualcosa di più sulla genesi del razzismo anti-slavo: secondo Brunello Mantelli, esso non fu una componente specificatamente fascista, ma una sorta di deriva di medio periodo che affondava le sue radici dentro l’Italia liberale; l’anti-slavismo radicale, cioè, era un elemento «costitutivo del nazionalismo espansionistico italiano di fine Ottocento5, uno dei principali filoni confluiti nel movimento interventista che nel 1914 si agitò per spingere l’Italia nella prima guerra mondiale», elemento che il fascismo ereditò e coniugò all’enfasi sulla missione civilizzatrice di Roma e sulla superiore civiltà italica che gli era propria. Da qui i principali obiettivi dell’espansionismo italiano nei Balcani: l’ italianizzazione forzata della popolazione residente e la sostituzione delle èlites locali con un ceto dirigente costituito da italiani.
Dall’altro lato, le truppe d’occupazione italiane erano costantemente in balia di una debolezza militare e psicologica, che spiega sia gli ordini spietatamente repressivi imposti dagli alti comandi, sia la loro scarsa applicazione: esse, infatti, erano sì numerose, ma di fatto ogni presidio si trovava spesso in condizioni di inferiorità numerica e di armamento di fronte agli attacchi partigiani; la guerra di guerriglia, insomma, poneva le truppe italiane in uno stato di continua tensione e, quindi, di sudditanza psicologica rispetto ad un avversario efficace ed inafferrabile.
Un aspetto indubbiamente importantissimo nello studio dell’occupazione italiana della Jugoslavia è l’estrema frammentarietà etnica e religiosa della popolazione jugoslava6, che fu sfruttata a proprio vantaggio dalle truppe italiane. La strategia militare impiegata, infatti, fu quella del «divide et impera7», il che significa che gli occupanti cercarono, ovunque possibile, di volgere a proprio favore le tensioni tra i diversi gruppi nazionali presenti, fomentando le divisioni e ricorrendo spesso all’ausilio di truppe collaborazioniste (come gli Ustaša croati e i Četnici serbi, o bande musulmane bosniache o kosovare).
Accanto ad una serie di operazioni militari (coordinate per lo più su iniziativa tedesca), che avevano lo scopo di abbattere tutte le forze di resistenza, gli italiani svolsero vere e proprie azioni di repressione, in risposta a singole azioni partigiane, che spesso coinvolgevano anche i civili.
Secondo Davide Conti, la repressione del movimento partigiano fu «il fattore centrale della politica d’occupazione italiana», poiché riassumeva in sé i due elementi fondamentali della strategia fascista: «da un lato, il completo controllo economico della regione, attraverso lo sfruttamento delle risorse, dall’altro, il programma di snazionalizzazione delle terre slave occupate, attraverso eliminazioni fisiche e deportazioni di civili fiancheggiatori o meno con i partigiani»8.
Uno dei documenti più importanti per comprendere la politica repressiva fascista nei Balcani è la circolare 3 C9: emanata in due versioni, quella del 1°marzo 1942 e la seconda, più circostanziata, del 1° dicembre, essa fu firmata dal generale Mario Roatta, Comandante del II Corpo d’Armata a partire dal 1942. In questo documento di circa duecento pagine, distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito, Roatta ordinò di impiegare la massima durezza nella repressione, sintetizzando nel punto IV il trattamento da riservare ai ribelli nella formula «non dente per dente, ma testa per dente». Si specificava, inoltre, che veniva considerato legittimo e non perseguibile un eventuale eccesso di reazione da parte dei militari italiani. La circolare 3 C avrebbe costituito il punto di riferimento per la successiva strategia di controllo del territorio: ad essa e alle seguenti simili disposizioni di Roatta, infatti, si sarebbero ispirati i diversi comandi nella condotta delle operazioni contro-guerriglia10.
Oltre ad attuare le repressioni, l’esercito italiano praticò anche deportazioni ed internamenti, in campi allestiti sia in Jugoslavia, sia nel Regno d’Italia.
Nei campi venivano deportati non solo i prigionieri di guerra, «ai quali molto frequentemente veniva disconosciuta la tutela della Convenzione di Ginevra»11, ma anche e soprattutto civili, prigionieri politici, ebrei, partigiani. Gli ebrei vi erano reclusi a scopo «protettivo» per evitare la deportazione da parte dei tedeschi; i civili, invece, a scopo «repressivo». Le deportazioni di questi ultimi avevano il duplice scopo di annientare la resistenza e di indebolire il carattere nazionale degli Stati sottomessi. In questo senso esse rientravano nella strategia della snazionalizzazione, l’«elemento strategico intorno al quale il fascismo cercò di sviluppare la propria azione nei Balcani12», poiché prevedevano che, una volta deportata o internata la popolazione locale, quest’ultima sarebbe stata sostituita da quella italiana.
I campi di concentramento istituiti dagli italiani furono numerosi: in territorio jugoslavo se ne contavano circa una ventina, tra cui il principale era quello situato sull’isola di Rab, un’isola al largo della costa dalmata; nel Regno d’Italia, invece, essi raggiunsero la cifra di duecento, il maggiore dei quali si trovava in Toscana, a Renicci d’Anghiari.
Le condizioni di vita all’interno dei campi erano estremamente difficili ed erano rese ancora più complicate dal sovraffollamento, dalla carenza di cibo e dalle precarie condizioni igienico-sanitarie. Essendo pochi i campi in muratura, spesso gli internati erano sistemati in tendopoli, allestite in riva al mare o in zone franose, dove la sopravvivenza, già di solito difficile, nei periodi invernali diventava impossibile. La mortalità, dovuta alla fame, era altissima, soprattutto tra gli anziani e i bambini.
Il numero delle vittime jugoslave dell’occupazione fascista è ovviamente impossibile da quantificare in maniera precisa; tuttavia, secondo stime fornite dalla documentazione ufficiale jugoslava raccolta dopo la fine della guerra dal governo di Belgrado, il tributo di sangue pagato dai popoli della Jugoslavia ammonterebbe a circa 250000 vittime13: esso sarebbe la somma di quanti morirono nei campi di concentramento e nelle prigioni gestite dagli italiani nei territori jugoslavi; di coloro che furono vittima di rastrellamenti e delle azioni di rappresaglia antipartigiana; infine, di chi venne fucilato come oppositore vero o presunto, o ancora come ostaggio eliminato in risposta ad un’azione della Resistenza.
Italiani, brava gente14?
Per più di cinquant’anni la storiografia e la memorialistica italiane hanno diffuso un’immagine edulcorata del soldato italiano in Jugoslavia, contribuendo a sedimentare il mito degli “italiani brava gente”. Paradossalmente, anche all’interno della stessa Jugoslavia, questo stereotipo è stato riproposto con poche varianti: alcuni studiosi, per esempio, hanno adottato la formula vesela okupacija («occupazione allegra») per definire la presenza dell’esercito italiano in Jugoslavia15. Questa espressione racchiudeva un duplice significato: spregiativo, relativo allo scarso valore militare degli italiani, ma anche elogiativo, perché i soldati italiani si sarebbero comportati con mitezza e con un’umanità ben diversa da quelle degli altri occupanti e dei nemici interni.
Ma quali sono le basi di questo mito? In primo luogo, esso è costruito su una logica comparativa: si argomenta, cioè, che il comportamento tenuto dalle truppe italiane sia stato migliore rispetto a quello delle altre forze in campo in Jugoslavia, innanzitutto gli Uŝtasa e i Četnici, responsabili di gravissime stragi contro le popolazioni, rispettivamente, serbe e musulmano-croate. In secondo luogo, soprattutto la memorialistica italiana ha insistito sul diverso comportamento fra i “civili” soldati italiani e i “barbari” partigiani slavi comunisti. Addirittura, come vedremo, nell’immediato dopoguerra sarebbe stato istituito uno speciale ufficio presso il Ministero degli esteri per raccogliere prove su innumerevoli atti di barbarie che sarebbero stati commessi dai partigiani nel corso della guerra16 onde rispondere alle accuse del governo jugoslavo.
In realtà, secondo Gobetti entrambi gli assunti sono solo parzialmente veri. Per quanto riguarda il paragone fra Uŝtasa/Četnici e italiani, esso non ha ragion d’essere, perché i primi erano impegnati in una lotta fratricida, che aveva come scopo l’eliminazione fisica della popolazione “nemica”, mentre i secondi rappresentavano una potenza occupante completamente estranea all’ambiente ed intenzionata a controllare il territorio con la collaborazione delle popolazioni. Si può invece discutere circa l’apporto che la presenza italiana diede nel fomentare la guerra civile: non c’è dubbio, infatti, che l’appoggio diplomatico concesso agli Uŝtasa prima e l’alleanza militare stretta con i Četnici dopo, favorirono il compiersi delle rispettive pulizie etniche. Per quanto riguarda il secondo assunto, non è vero che i soldati italiani furono sempre “civili”: essi, per esempio, non facevano alcuna distinzione tra comandanti e semplici partigiani, ed anzi spesso nemmeno fra partigiani e popolazione civile, specie durante i rastrellamenti. Né che i partigiani slavi comunisti furono “barbari”: tranne singoli casi di omicidi mirati, l’esercito di Tito non fu quasi mai responsabile di stragi contro le popolazioni civili e il suo comportamento verso i prigionieri era certamente più rispettoso delle convenzioni internazionali di quanto non lo fosse quello italiano, che non riconosceva ai partigiani nemmeno lo status di combattenti.
Vi è poi un terzo aspetto, cioè il paragone con il “cattivo tedesco”, che è servito, non solo per il caso jugoslavo, da principale contrappunto alla costruzione del mito del “buon italiano”. Anche questo confronto merita alcune considerazioni. In primo luogo, è senza dubbio vero che i tedeschi applicarono in Jugoslavia una politica molto più repressiva di quella adottata dagli italiani e che il terrore usato dai primi, sia nei Balcani, sia in altre zone occupate, con le esecuzioni esemplari di partigiani e le violenze sui civili, costituì lo «strumento centrale della politica di occupazione17»; è altrettanto vero, però, che gli ordini emanati dai principali comandi militari non differivano di molto da quelli imposti dai tedeschi: infatti, l’emblematica circolare 3 C prevedeva cattura di ostaggi, rappresaglie sulla popolazione civile, esecuzioni sommarie, distruzioni diffuse e politiche della “terra bruciata”. Se gli ordini erano pressoché identici, ben diversa fu la capacità attuativa di quei comandi: le forze di occupazione tedesche dimostrarono un’efficienza repressiva molto maggiore, connessa anche alla profonda consapevolezza ideologica della propria superiorità tecnologica e razziale18; al contrario, l’applicazione di quei comandi da parte delle truppe italiane «non fu sistematica e dipese dalle circostanze19».
L’ultimo tassello nella costruzione del mito degli “italiani brava gente” è costituito dal “salvataggio” degli ebrei. L’esercito italiano, infatti, si adoperò più volte per proteggere gli ebrei dalle deportazioni naziste: dapprima, dopo che nello Stato Indipendente Croato erano scoppiati i pogrom antiebraici, permettendo che si rifugiassero nella Dalmazia italiana; poi, nel 1942, rifiutandone la consegna alle autorità tedesche e croate; infine, nel 1943, trasferendone la maggior parte (circa 2500 persone) in una sezione speciale del campo di concentramento di Arbe, dove sopravvissero fino al settembre del 1943. I motivi di questo comportamento non sono ancora stati chiariti. Secondo Gobetti, i generali italiani avrebbero salvato gli ebrei non perché spinti da un interesse “umanitario”, ma perché determinati ad affermare, «attraverso un gesto soprattutto simbolico, l’autonomia dell’esercito italiano di fronte alla prepotenza dell’alleato germanico»20; dunque, nemmeno la protezione data agli ebrei potrebbe essere letta come prova della “bontà” del soldato italiano. Sulla questione hanno espresso un parere diverso Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti: alcuni documenti firmati dalle autorità italiane, infatti, individuano lo sgomento per la politica di sterminio ebraica perpetrata dai tedeschi e dimostrerebbero, quindi, che nella politica di salvataggio degli ebrei non avessero contato soltanto le ragioni di prestigio e la volontà di bloccare l’interferenza tedesca nei territori sotto il controllo italiano21.
Nonostante esso sia ben consolidato, è già da qualche tempo che in Italia diversi lavori storiografici hanno provato a de-costruire il mito degli “italiani brava gente”, infrangendo la barriera di silenzio intorno ai crimini commessi dagli italiani durante le guerre fasciste e aprendo un varco verso una più chiara e corretta comprensione di quello che è accaduto.
Relativamente all’occupazione balcanica, Del Boca si sofferma su quanto accaduto in Slovenia. Qui, benché nel 1941 si fosse parlato di concedere un’ampia autonomia all’annessa provincia di Lubiana, di fatto i militari e i funzionari civili miravano ad una fascistizzazione accelerata della regione, in cui i rastrellamenti metodici e feroci22 e le deportazioni coatte della popolazione23 si tradussero in una vera e propria operazione di «bonifica etnica» o di «genocidio culturale24». A riprova di questa tesi, Del Boca cita un documento molto importante e purtroppo poco conosciuto: si tratta di un rapporto25, steso da una Commissione italo-slovena istituita nel 1993, che getta luce su alcuni punti nodali della storia delle relazioni fra l’Italia e il popolo sloveno (i soprusi fascisti nel Ventennio, l’occupazione italiana di parte dei Balcani, le stragi, le deportazioni, le foibe e l’esodo). Alla luce anche di questo lavoro, si può senz’altro asserire che «Anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato di poco i due anni, i crimini commessi dalle truppe d’occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia26».
Un altro lavoro storiografico molto importante in questo ambito è stato quello di Gianni Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-1943. In questo volume Oliva non solo ripercorre le pagine poco note dell’Italia imperiale, soffermandosi sui crimini compiuti dalle truppe d’occupazione italiane nei Balcani, ma pone anche al centro dell’attenzione lo stereotipo degli “italiani, brava gente”. Secondo Oliva, questo mito è «rassicurante» e «assolutorio», poiché rappresenta il soldato italiano «fondamentalmente buono, saldamente ancorato ai valori della famiglia, persino un po’ “mammone”». Dunque, «egli non è capace di violenza contro gli inermi, non si accanisce nelle rappresaglie, non si abbandona alle violenze brutali della guerra27». Questo stereotipo ha avuto un’importanza fondamentale nei meccanismi psicologici di “rimozione delle colpe” e di “rielaborazione della memoria nazionale”: «”italiani brava gente” è un tassello centrale nella ricostruzione del passato nazionale, quale va definendosi negli anni compresi tra la caduta del fascismo e la promulgazione della Costituzione repubblicana28.
Ad un’analisi approfondita della genesi e dell’impiego degli stereotipi dei «bravi italiani» e «cattivi tedeschi» è dedicato un recente volume di Filippo Focardi: Il cattivo tedesco e il bravo italiano29. Focardi individua, a cominciare dalla propaganda degli Alleati e poi, dopo l’8 settembre del 1943, da quella del re, di Badoglio, e di tutte le forze dell’anti-fascismo, il delinearsi di due tendenze principali. La prima consisteva nel raffronto tra le tipizzazioni del tedesco e dell’italiano, che chiamava in causa una differenza di natura quasi antropologica tra il «tedesco-automa», abituato ad eseguire gli ordini «con brutalità meccanica», e l’italiano sempre pacifico, empatico, cordiale, contrario alla guerra e generoso anche nelle vesti dell’occupante. Questa differenza veniva ulteriormente sottolineata attraverso la contrapposizione fra la figura del «tedesco barbaro incivile» e quella dell’italiano figlio invece della superiore cultura latina e cattolica, capace di moderazione e misericordia verso il prossimo. La seconda tendenza era quella di attribuire esclusivamente ai fascisti la responsabilità dei crimini commessi da parte italiana. Non si doveva parlare, dunque, di «crimini italiani», bensì solo di «crimini fascisti». Questi ultimi, inoltre, erano spesso considerati come frutto di mera «imitazione» di quelli commessi dai tedeschi.
Sia le forze della sinistra anti-fascista, sia gli ambienti monarchici e nazional-conservatori si trovarono concordi nel cementare l’immagine del bravo soldato italiano contrapposta a quella dello spietato guerriero germanico, principalmente poiché condividevano ragioni politiche stringenti: avvicinandosi i negoziati per il trattato di Pace, occorreva separare nella maniera più netta possibile le responsabilità italiane da quelle dell’ex-alleato tedesco, su cui si sperava di scaricare il peso esclusivo dei crimini dell’Asse.
La contrapposizione del comportamento del «bravo italiano» a quello del «cattivo tedesco» costituì, dunque, «uno dei pilastri della strategia difensiva italiana30» e sarebbe stata ulteriormente sviluppata anche a proposito della questione dei crimini di guerra, in particolare per sostenere il rifiuto italiano all’estradizione dei presunti responsabili.
Laura Bordoni
Noi italiani del friuli abbiamo dato nazionalità a diversi esuli istriani. Precisamente nella zona del pordenonese e precisamente nel Comune di S. Quirino
Grazie mille per il suo contributo sig. Bet. Mi piacerebbe approfondire la questione: se vuole, mi contatti all’indirizzo e-mail ferraragh@gmail.com così ne parliamo.