L’Ordine Cistercense e la sua genesi
L’Ordo Cistercensis 1 (OCist) è un ordine monastico di diritto pontificio2, originato dall’esperienza monacale di Roberto di Molesme e dei suoi compagni a Cîteaux, in Borgogna, a partire dal 1098. Sul volgere del primo millennio dopo Cristo esperienze monacali collettive, come quella cluniacense, erano in crisi per via di non osservanza e devianze dalla regola di Benedetto da Norcia. Costoro non si mostravano più capaci di soddisfare le esigenze di fedeli che intendevano vivere una vita ascetica conforme a quella evangelica. I fedeli sentivano la necessità di “rendere cristianamente profonda la propria esistenza e realtà”3.
Il ritorno alla stretta osservanza della regola benedettina, la ricerca del “deserto”4 e il lavoro manuale unito all’ideale di povertà evangelica spinsero Roberto (1024-1111), un monaco benedettino originario della Champagne, a tentare di costruire una comunità monastica riformata. Nel 1075, egli fondò la comunità di Molesme e nel 1098, partiti in cerca di un nuovo luogo dove cercare la perfetta solitudine, Roberto e i suoi compagni fondarono il “nuovo monastero” di Cîteaux. Richiamato subito a Molesme, Roberto ne fu abate fino al 1111, anno della sua morte. Tra il 1113 e il 1115 nascono le “quattro figlie” di Cîteaux: La Ferté (1113), Pontigny (1114), Clairvaux e Morimond (1115). Questi quattro cenobi divennero a loro volta fondatori di numerosi monasteri in tutta Europa: si pensi che nel 1149, una trentina d’anni dopo la prima fondazione, l’Ordine arrivò a possedere circa 340 monasteri.5 Nel 1113 entrerà nel cenobio di Clairvaux Bernardo (1090-1153), considerato il secondo, e più conosciuto, fondatore dell’Ordine. Il 1119 è un anno di fondamentale importanza per i monaci bianchi: papa Callisto II, approva il 23 dicembre la Carta Caritatis 6, che regolava i rapporti tra l’abate e i monaci, tra cenobi dell’Ordine e il governo dell’intero gruppo di abbazie.Il modello della filiazione cistercense
Roberto di Molesme voleva reintrodurre nel monachesimo una povertà reale in cui il monaco fosse spinto a rinunciare ai propri averi seguendo l’ideale evangelico e attuandolo nella frugalità della vita cenobitica. Si dimostrò dunque necessario per i successori di Roberto, trovare un sistema mediante il quale i monasteri potessero essere uniti gli uni agli altri per mantenere l’integrità della disciplina, senza concentrare tutto il potere e tutte le risorse nell’abate di un monastero centrale, come succedeva nel caso “monarchico” di Cluny. La soluzione fu proposta dall’abate Stefano nella prima redazione della Carta Caritatis (1119), la cosiddetta prior: ogni monastero doveva avere il proprio abate e conservare la propria indipendenza. La vigilanza indispensabile e il mantenimento della disciplina sarebbero stati assicurati attraverso la continuità della relazione pastorale tra casa “madre” e “figlia”, che constava in visite annuali da parte dell’abate del cenobio fondatore, il quale doveva accertarsi dell’osservanza della regola e dell’uniformità liturgica7. Questo rapporto era coordinato dal Capitolo Generale, presieduto dall’abate di Cîteaux, che si riuniva ogni anno ed era composto di tutti gli abati dell’Ordine. Da tenere ben presente è la sensata insistenza del Manselli e della Pasztor8 su “quello che poi si chiamerà il ‘vincolo della carità’ all’interno dell’ordine cistercense”, cioè l’idea “del disporsi istituzionalmente (…) in abbazie madri e filiali. Per cui il rapporto che lega le une alle altre non è un rapporto disciplinare, giuridicamente istituzionalizzato, bensì un legame d’affetto che, essendo assimilato a quello di generante e generato, anzi di madre e figlia, è un rapporto d’amore che non esclude la disciplina ma sublima in una dimensione cristianamente più alta”9.
I conversi e l’economia monastica
Secondo la Carta, erano proibiti i redditi di tipo feudale ed era ribadita la necessità per il monaco di sostentarsi con il lavoro delle proprie mani. Tuttavia, vista l’impossibilità di adempiere le funzioni liturgiche nei periodi in cui era necessario il lavoro nei campi, si decise di ammettere nell’Ordine dei conversi, il cui compito principale consisteva nel provvedere al lavoro di manovalanza finalizzato al sostentamento della comunità. I conversi “erano esentati dalle incombenze del coro, della lettura e della meditazione (…). La reputazione in cui era tenuto l’Ordine, la sua popolarità, il trattamento e le condizioni lavorative offerte attirarono centinaia di contadini, che entravano come conversi nei monasteri cistercensi”10.
Alla fine del secolo XII molti cenobi cistercensi erano circondati da un certo numero di terreni e possedimenti, controllati col sistema delle grange 11., ma con l’andare del tempo le grandi proprietà cistercensi furono distribuite per la coltivazione a dei coloni fittavoli che pagavano tributi e tasse fisse. Collegata allo sfruttamento terriero, in alcuni casi, era la macinatura, grande fonte di guadagno per l’Ordine. L’agricoltura non era l’unica fonte di sostentamento (e di guadagno, nel caso in cui vi fosse un eccesso di produzione) delle comunità cistercensi: i monaci bianchi inglesi erano rinomati per i loro opifici; i monasteri borgognoni si distinguevano per la bellezza delle proprie vigne e la ricchezza delle proprie cantine; i monaci scozzesi si diedero al lavoro minerario e al commercio di carbone, mentre quelli della Germania settentrionale all’estrazione e alla distribuzione di sale; anche la piscicoltura e l’allevamento del bestiame – e ovviamente i prodotti derivati dal latte – fornivano cibo e guadagni ai monaci. In tutto il Medioevo, una importante fonte di guadagno furono le donazioni (o fondazioni pie), date per lo più al fine della sepoltura tra le mura abbaziali o le messe in memoriam.L’ esenzione monastica
Iniziamo prima di tutto con lo spiegare cosa si intende per “ esenzione monastica ”12 e per “ordine di diritto pontificio”: un ordine e i suoi monasteri sono esentati dalla dipendenza vescovile in campo liturgico, pastorale e spirituale; dipendono quindi, a tutti gli effetti, direttamente dalla Santa Sede. Cariboni porta come esempi per indagare il problema dell’esenzione, le abbazie di Chiaravalle della Colomba (Piacenza) e di Santa Maria di Fontevivo (Parma) che, come il nostro monastero di Acquafredda, sono “da annoverare entro la prima generazione cistercense fuori dal territorio francese, frutto della predicazione di San Bernardo in Italia settentrionale”13. Possiamo quindi considerare le conclusioni di Cariboni, valide per questi due cenobi, valide anche per il monastero di Acquafredda. I padri cistercensi, all’inizio del secolo XII, cercano di limitare l’influenza esercitata dai nuovi cenobi sulla vita della diocesi nel cui tessuto si erano inseriti. Ancora una volta è la Carta Caritatis prior (1119) a venirci in aiuto: pur stabilendo le norme di vita e organizzazione cenobitica questa non andò a toccare la giurisdizione vescovile sui monasteri; era però previsto che ogni cenobio venisse eretto solo dopo l’accettazione vescovile della Carta stessa. Si veniva quindi a creare una situazione in cui il vescovo esercitava teoricamente le sue piene facoltà, pur autolomitandosi con l’accettazione della regola di vita cistercense. Fino ai decenni centrali del secolo XII i monaci non ebbero una piena esenzione: i rapporti erano quelli istituzionali tra un pastore e le proprie anime, tra un padre e i propri figli. “Le istituzioni dei monaci bianchi si rivolsero, infatti, di norma i presuli locali per la consacrazione degli altari, l’ordinazione dei monaci, la consegna degli olii santi e, in particolare, la benedizione degli abati”14. Fu durante i pontificati di Eugenio III (1145-1153)15, Alessandro III (1159-1181) e Lucio III (1181-1185) che maturò, attraverso disposizioni pontificie, l’effettiva autonomia cistercense dai presuli. Questi papi stabilirono in primo luogo il divieto, per i vescovi, di avanzare nei confronti dei cenobi cistercensi presenti nella propria diocesi, richieste che, oltre all’obbedienza dovuta, fossero contrarie alla Carta o in contraddizione con privilegi già ottenuti; in un secondo momento stabilirono la nullità di sentenze di sospensione, interdetto o scomunica lanciate dai presuli contro i monaci bianchi; in ultimo stabilirono l’esenzione della decima sulle terre coltivate direttamente o a proprie spese dai monaci. Cariboni nota come, essendo nei documenti papali l’inscriptio [/ref]Per terminologia legata alla produzione di documenti Cfr. Thomas Frenz, I documenti.[/ref] riferita “al primo abate e a tutti i coabbati a lui legati, nominati complessivamente ma considerati uno per uno (…) sembra rispecchiare la struttura della rete monastica cistercense (…). Privilegi di questo tipo, che potremmo definire “collettivi”, in quanto indirizzati a tutti e nello stesso tempo ad ogni singolo abate, (…) permettevano di estendere le libertates di Cîteaux alla congregazione”16. Privilegi di questo tipo consentirono a ogni singolo cenobio, durante il secolo XII, di poter godere degli iura e delle libertates concessi al protomonastero di Cîteaux. Gli sviluppi di questo ius particolare andarono a influire – il più delle volte negativamente – sul rapporto tra singoli cenobi e le rispettive Chiese diocesane e o strutture ecclesiastiche locali. È il caso soprattutto di quei monasteri che, nati nella prima generazione cistercense italiana, andarono affrancandosi dal controllo vescovile grazie a privilegi pontifici. La conseguenza ovvia di ciò fu che ogni monastero dovette rivendicare e difendere, in sede locale, i diritti ottenuti. Per questo la sede apostolica “già a partire dagli anni Trenta del XII secolo (…) con l’evolversi dell’esenzione, concesse alle abbazie legate a Cîteaux dei privilegia indirizzati singolarmente, in cui, dopo la semplice formula di tutela del patrimonio, furono inserite delle clausole che attestavano indulta et libertates raggiunti dall’ordine”17. Con gli inizi del secolo XIII questa tipologia di documento (tutela del patrimonio seguita da clausole di esenzioni e facoltà dell’Ordine) venne istituzionalizzato nel Privilegium commune cisterciense.
Il monastero di Acquafredda
Il monastero cistercense di Santa Maria di Acquafredda (Co) fu fondato dal monaco Enrico, mandato dall’abate Pietro (1139-1156) dell’abbazia di Morimondo nell’anno 1142, su una terra donata da Azzone, alias Peregrino, in località Roncale, nella pieve di Lenno, ai piedi del monte Oltirone, in honorem beate Marie et Petri et Agrippini18. Questo monastero ottenne grande fama tra le abbazie figlie di Morimondo, nobilitato con privilegi da parte degli imperatori Federico I, nell’anno 1159, Enrico VI (1195), Ottone IV (1212) e Enrico VII (1311). Sorgendo in un contesto rurale, dove l’influenza cittadina era, pressoché assente dopo la disfatta comasca del 1127 (nella Guerra dei Dieci anni tra la città lariana e Milano), il cenobio andò a legarsi in rapporti di stretta collaborazione con la comunità della Tremezzina e con la piccola aristocrazia della zona. Il blando controllo di Como sul suo comitatus permise uno florido prosperare di attività lavorative nella zona controllata dall’autorità isolana e ottime premesse per lo sviluppo dell’abbazia che, dal 1142 in avanti, intrattenne rapporti di tipo commerciale, dapprima come ricevente di donazioni e, in seguito, come concessore di terreni e beni in affitto a singoli19. È possibile affermare che grazie all’opera e alla benevolenza della popolazione locale, i monaci dell’Acquafredda abbiano sin da subito trovato sicurezza e stabilità, dotandosi di beni e infrastrutture necessarie all’autosufficienza. Grillo nota come, nei primi anni di vita del cenobio, “il borgo d’Isola costituì il principale punto di riferimento per la neonata comunità (…). Nel 1150, grazie a una nuova donazione di Azzone Peregrinus, l’abbazia entrò in possesso di una casa “sita nel castello di Isola, dotata di alcune botti da vino, destinata a fungere da punto di accumulo e di smercio dei prodotti delle terre monastiche”20. A pochi anni dalla fondazione, quindi, il cenobio è già in grado di vendere il surplus della propria produzione agricola. Il primo contatto con il vescovo comasco, all’epoca Ardizzone (1125-1162), fu nel 1152: in un atto di vendita, il presule comense diede al monastero tutti i fitti e i conditia, che spettavano alla diocesi, di un terreno in pieve di Lenno21. Il vescovo prendendo per la prima volta contatti con l’abbazia, la coinvolse nel progetto di riaffermazione della propria autorità e la inserì nel controllo politico-economico della zona, ponendo, di fatto, il cenobio in un più ampio contesto di relazioni sociali e istituzionali. Con la distruzione dell’Isola del 1169, la diaspora dei suoi abitanti e il definitivo ritorno comasco al controllo sul proprio comitatus, il cenobio si trovò nella condizione di avere un solo interlocutore per i propri affari: la città di Como. Non pare, tuttavia, che l’abbazia abbia risentito economicamente della distruzione dell’Isola ma, piuttosto, è quasi certo che abbia “rafforzato il proprio prestigio e la ricchezza entrando in stretti rapporti con una nuova prospera realtà economica e sociale22”. Nella seconda metà del secolo XII, quindi, i monaci di Acquafredda si dedicarono all’allevamento e, sfruttando le difficoltà dei comuni rurali, appena investiti dalla violenza cittadina, acquistarono o presero in affitto pascoli privati e parte di quelli collettivi. Queste attività non avrebbero prosperato senza il lavoro dei conversi: a partire dagli ultimi due decenni del secolo, i fratres sono costantemente menzionati in compiti di grande responsabilità, sia accanto a religiosi o abati, sia da soli. In tutti i capitoli del 1200, i monaci e i conversi furono presenti in cifre pressoché uguali e con pari dignità. Altri introiti provenivano dall’attività molatoria: già nel 1143, l’anno dopo la fondazione, il monastero si era dotato di un mulino. Nel 1241, i mulini controllati dai monaci in pieve di Lenno, erano quattro23. Dopo la tragica distruzione dell’Isola, cercando sbocchi commerciali per il surplus produttivo delle attività di allevamento e gestione dei mulini, i monaci di Acquafredda dovettero quindi munirsi di alcune case in città, punto di smercio e di contatto con il mercato locale e, naturalmente, con le autorità religiose e comunali. Con queste ultime non vi furono nei primi anni di collaborazione buoni rapporti, come vedremo nell’analisi del documento riguardante Santa Maria di Acquafredda. La lettera di Alessandro III del 3 febbraio 1173 24Segni (1173) Februar 3.
Alexander episcopus servus servorum Dei. Dilectis filiis Cumanis consulibus salutem et apostolicam benedictionem. Gravem Deo infert iniuriam et offensam qui viros religiosos et divinis mancipatos obsequiis iniuste conturbat et eorum libertatem diminuit quibus ob Dei reverentiam et timorem grata est affectio et devotio exhibenda. Ad nostram siquidem noveritis audientiam pervenisse quod dilectos filios nostros . . abbatem et fratres Aque frigide ad forense iudicium et angarias et opera servilia trahere interdum non formidatis. Quoniam vero indignum est penitus et idecorum ut religiosorum libertas ad servilem conditionem deduci debeat et tranquillitas ordinis laqueis secularibus aliquatenus implicetur, discretioni vestre per apostolica scripta, mandamus et mandando precipimus quatinus predictos fratres forensia subire iudicia et angarias vel opera quelibet rusticana nullatenus compellatis, set ad libertatem et quietem ordinis illorum potius intendatis, ut nos exinde devotionem et affectionem vestram digne possimus in Domino commendare et uberes vobis gratiarum actiones referre. Quod si secus ageritis, nostram et indignationem omnipotentis Dei poteritis non immerito formidare. Datum Signie tertio nonas februarii.25 Il testo della lettera è stato copiato dal Kehr dalle trascrizioni del cistercense milanese Ermete Bonomi (1734-1812), che aveva a disposizione gli originali. Il Kehr individua l’originale di questa lettera nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, ma sembra non consultarlo. A una prima analisi possiamo supporre – non avendo analizzato l’originale ma avendo utilizzato la Tabella 2 proposta dal Frenz26 – di identificare il documento come una litera in forma brevis, cum filo canapis27. Dobbiamo anche ricordare che “i documenti che il papa emana direttamente per affari politici o per l’amministrazione dello stato della Chiesa sono in un primo momento normali literae cum filo canapis (…) e vengono spediti, come gli altri documenti, da notai e dagli scrittori della cancelleria”28. Il Frenz divide il documento in tre parti: protocollo, contesto ed escatocollo. Qui indagheremo le parti essenziali della lettera poiché, essendo una copia non intera dall’originale, è spuria di alcune parti.
Protocollo
Intitulazio: Alexander episcopus servus servorum Dei; Inscriptio (indirizzo): dilectis filiis Cumanis consulibus; Salutatio (formula di saluto): salutem et apostolicam benedictionem;
Contesto
Arenga: Gravem Deo… exhibenda; Narratio: Ad nostram… intendatis; Dispositio: ut nos… referre; Decretum e Sanctio: Quod… formidare;
Escatocollo
Datazione: la lettera è datata tertio nonas februariis: subito si può notare il ricorso alla datazione di giorno e mese alla maniera romana antica, cioè secondo calende, idi e none. Bresslau29 indica la romana come tipica datazione per Lombardia e Toscana nel secolo XII. Non è qui riportato l’anno, sebbene il documento preposto al nostro dal Kehr30, sempre riguardante Acquafredda – concessione della protezione apostolica per l’abbazia e possibilità di accettare chierici e laici come monaci o conversi e conferma di possedimenti e decime -, riporta l’intera datazione: Datum Signie per manum Gratiani sancte Romane ecclesie subdiaconi et notarii, tertio nonas frebruarii, indictione sexta, incarnationis dominice anno millesimo centesimo septuagesimo secundo, pontificatus vero domini Alexandri pape tertii anno quartodecimo.31 Vengono qui proposte tutte le informazioni sul dove e sul quando il documento è stato emesso. Il luogo di emissione è la città di Segni, nel Lazio, a un centinaio di chilometri da Roma; il giorno e il mese sono quelli, già indicati, secondo la maniera romana antica. Subito dopo, per l’indicazione dell’anno, troviamo quella dell’indictione32, la sesta di quel ciclo; ancora è indicato l’anno secondo il metodo ab incarnatione33, cioè il 1172; ultima indicazione temporale è quella riguardante degli anni di regno del papa, in questo caso, il quattordicesimo di Alessandro III34. Altro indizio importante da seguire è quello che identifica un certo suddiacono Graziano come notarius: dal secolo XII, dopo la riforma del secolo precedente, i notai della cancelleria papale si riunirono in un collegio di chierici che scrivevano la minuta del documento, poi ricopiata, convalidata dalla bolla e infine spedita. Guarderemo ora al contenuto della lettera e al perché si sia reso necessario chiedere un intervento papale. “Nella seconda metà del XII secolo era prassi piuttosto consueta che una singola istituzione religiosa richiedesse alla Chiesa romana la conferma di un privilegio precedentemente ottenuto. Benché in tali documenti fosse inserita alla fine del protocollo la formula di perpetuità, chiese e monasteri erano soliti sollecitare presso la sede apostolica ad ogni nuova elezione papale la conferma dei loro diritti particolari, per dare vigore ed efficacia, specialmente in ambito locale, alle proprie libertates”35. Proprio questo successe nel caso di Acquafredda, ma con una sola differenza: non era stata l’autorità apostolica ad avere un cambio al vertice, ma il contesto geopolitico in cui l’abbazia era inserita. Come sappiamo nel 1169 venne distrutta l’isola Comacina e i monaci bianchi dovettero cercare altrove sbocchi commerciali, andando a inserirsi nel mercato cittadino con i propri prodotti. Evidentemente, gli inizi del rapporto commerciale tra il cenobio e il comune non furono pacifici. Forse con intenti puntivi nei confronti di un ente troppo vicino alla comunità isolana sconfitta, i consoli urbani pretesero di assoggettare i monaci alla giustizia laica e di sottoporli a opera servilia et rusticana, quasi a volerli ridurre a uno stato di servitù. I monaci allora chiesero probabilmente un intervento della santa sede che rispose con questa lettera. Cariboni descrive questa prassi di richiesta e conferma di privilegia, consolidatasi nella cancelleria pontificia a quest’altezza cronologica: l’ente che necessitava del privilegio inoltrava, grazie a un suo procuratore, una petitio che veniva accettata dalla curia. La richiesta, accolta da un notaio, doveva essere approvata o dal capo della cancelleria o dal pontefice stesso e affidata al notaio incaricato di redigere la minuta; nel caso in cui il privilegium venisse confermato il modello per la confezione del Concetto della lettera erano i privilegi dello stesso tipo accordati a quella domus dai pontefici precedenti; il documento controllato, corretto e riscritto era letto davanti al pontefice, sarebbe stato da quest’ultimo e dai cardinali competenti sottoscritto, datato dal notaio e infine bollato. Supponiamo quindi che, seguendo questo iter, la cancelleria pontificia accolse la supplica dei monaci (“Ad nostram siquidem audientiam pervenisse”) e che risposte con questa lettera, vietando all’autorità comunale comense di avanzare qualsivoglia pretesa di tipo giuridico o economico sulle persone appartenenti al monastero, monaci o conversi, pena “nostram et indignationem omnipotentis Dei”. I fedeli sentivano la necessità di “rendere cristianamente profonda la propria esistenza e realtà”36.
Alessandro Luraghi