“Nessuna censura ha mai distrutto una parola, ne ha reso pericoloso l’uso aumentandone il fascino, l’ha fatta forte. Necessaria e doverosa, dolorasa se è il caso, gioiosa e impertinente se se lo può permettere. La parola si nutre di studio contemplazione ascolto e deve essere coraggiosa, pregna”.
Giovanni Lindo Ferretti1.
Questo elaborato non ha la pretesa di tracciare una storia della censura né, tanto meno, vuole proporre una lista dei roghi di libri tra ‘400 e ‘600 ma, solamente, si propone di inquadrare un atteggiamento caratteristico del potere costituito e delle sue politiche “librarie”: in particolare, quello che porta l’autorità a identificare nel rogo dei libri – estrema conseguenza delle strategie di censura – una potentissima arma disciplinare per il controllo delle coscienze e la loro moralizzazione.
Saranno due gli esempi di rogo di libri proposti – il Falò delle Vanità organizzato nel 1497 da Girolamo Savonarola e i roghi romani del Talmud nel 1554 – per meglio comprendere queste dinamiche di incontro-scontro tra politica e società, tra chi amministra il potere e chi lo subisce. In definitiva, si parlerà di un ulteriore problema di relazioni tra maggioranza e minoranza.
I.
Per censura si può intendere un “esame, da parte dell’autorità pubblica o dell’autorità ecclesiastica, degli scritti o giornali da stamparsi, dei manifesti o avvisi da affiggere in pubblico, delle opere teatrali o pellicole da rappresentare e sim., che ha lo scopo di permetterne o vietarne la pubblicazione, l’affissione, la rappresentazione, ecc., secondo che rispondano o no alle leggi o ad altre prescrizioni»2.
A partire da questa definizione è da subito riscontrabile una volontà di controllo da parte del potere costituito che, quasi con diffidenza, guarda ai libri (e a molte altre tipologie di scritti) come a portatori di idee eterodosse e potenzialmente eversive. Si tenga comunque in considerazione come la biblioclastia sia solamente l’ultimo, estremo stadio di una politica di censura attuata dall’autorità3.
L’eliminazione del libro corrisponde all’eliminazione dell’idea che racchiude nelle sue pagine. Come chiaro esempio di ciò si pensi alla condanna al rogo dei cosiddetti eretici nel Medioevo, quando essi venivano arsi vivi insieme ai loro scritti: l’autorità ricorreva a questa pratica estrema per prevenire il diffondersi di idee che avrebbero potuto turbare la vita dei fedeli4.
Chiedendoci, perciò, quale siano i motivi che spingono il potere a un tale atto possiamo individuare alcune tendenze: sicuramente, come già proposto, l’autorità, incenerendo lo scrigno di un sapere “altro” e pericoloso, vuole assicurarsi l’eliminazione definitiva di una proposta di valori differenti dalla gamma comportamentale adottata e promossa dalla società5; imporre il pensiero, quindi gli usi e i costumi della maggioranza di cui l’autorità si è fatta garante. Proprio di qui deriva l’altro, importante movente: il rogo dei libri e le politiche di controllo culturale mirano al monitoraggio di minoranze ben definite da peculiarità sociologiche proprie – siano ideologiche, religiose, economiche.
Volendo dare un nome a questi due atteggiamenti del potere potremmo, dunque, collegare all’eliminazione di pensieri eterodossi la moralizzazione (o il disciplinamento) della società e giustapporre all’intralcio al progresso culturale di una minoranza il controllo della stessa.
II.
Consideriamo come primo esempio – che ci aiuterà a indagare la volontà del potere di moralizzare e disciplinare le coscienze – il cosiddetto Falò delle Vanità (1497).
Alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492), l’attività predicatoria del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498) scosse definitivamente gli animi di una Firenze già in fermento per le guerre portare nel territorio italiano da Carlo VIII di Francia (1470 – 1498). Una rivolta popolare portò alla cacciata del primogenito di Lorenzo, nuovo Signore di Firenze, Piero. Venne allora proclamata la Repubblica ma, da subito, si crearono due fazioni: l’una, quella degli Arrabbiati, fedele ai Medici, l’altra, quella dei Piagnoni, formata dai seguaci dell’animatore spirituale della neonata Repubblica.
Le omelie di frate Girolamo, ispirate all’Apocalisse e ai libri profetici, tendevano a colpire “i vizi del suo tempo e gli abusi di un governo ritenuto tirannico”6. Il carisma del novello Elia e la sua predicazione sul Giudizio incombente, convinsero i cittadini a bruciare, il Martedì Grasso del 14977, ogni oggetto che poteva rimandare al fastoso passato mediceo della città, inducendo il popolo a una condotta di vita lontana dall’essenzialità evangelica. Furono bruciati libri e opere d’arte, suppellettili e mobilia, vestiti e oggettistica cosmetica.
L’eliminazione materiale dei relitti di un passato mondano, testimonianze dell’opulenza e della corruzione della Firenze della Signoria dei Medici e di una condotta morale troppo profana, rappresenta il tentativo di Savonarola di imporre un controllo sulla vita dei cittadini, tanto sul piano religioso-pietistico quanto su quello della vita quotidiana. Qui il rogo – inteso come entità purificatrice – è, perciò, espressione del tentativo savonaroliano di moralizzazione e disciplinamento della cittadinanza.
Non è sciocco considerare come, l’anno seguente, dopo l’arresto e la condanna a morte, frate Girolamo subì il supplizio dell’impiccagione e il suo corpo fu poi dato alle fiamme – le ceneri, raccolte, furono gettate in Arno per evitare la possibile venerazione dei seguaci –. Savonarola, per una macabra ironia, fece la stessa fine degli oggetti che aveva consegnato alle fiamme: il suo corpo fu arso e le sue ceneri disperse affinché venissero eliminate le prove di un passato scomodo nella memoria di Firenze.
A ragione, Heine osservava che “dove si bruciano libri, alla fine si bruceranno gli uomini”8.
III.
Parlare dei roghi organizzati per la distruzione di testi ebraici significa guardare alla storia della censura attuata dalla Chiesa romana nei confronti del patrimonio librario delle comunità ebraiche europee. Durante il Medioevo sono stati organizzati diversi roghi di libri ebraici in tutto il continente. A Parigi, per esempio, nel 1242 furono portati in Place de Grève quarantadue carri carichi di manoscritti ebraici e furono dati alle fiamme. “Fuori dalla Francia pare che sistematiche confische abbiano avuto luogo in Inghilterra, in Sicilia e nell’Italia meridionale peninsulare nel 12709.
In particolare, questo elaborato prenderà in considerazione i roghi del 1553, quando nei territori dello Stato della Chiesa vennero confiscate e date alle fiamme le copie di un particolare testo sacro giudaico: il Talmud. Questo è un insieme di scritti che raccoglie le discussioni riguardanti la Torah di saggi e maestri di differenti tradizioni rabbiniche. Il nucleo originario fu discusso durante la Cattività babilonese ma il testo fu redatto a partire dalla seconda distruzione del Tempio (70 d.C.)10. La prima edizione completa dal Talmud babilonese fu stampata a Venezia da Daniel Bomberg11 nel 1523.
Negli anni ‘30 e ‘40 prospera l’editoria di libri ebraici in Italia. Lotte commerciali fra stampatori cristiani e stampatori di letteratura rabbinica accesero il fuoco della nuova persecuzione contro il Talmud. Perani riporta un estratto dalla cronaca intitolata La valle del pianto (Eme ha-bakah), compilata dal medico e storico ebreo Yosef Ha-Kohen (1496-1575), secondo la quale alcuni ebrei convertiti – Hananel da Foligno, Yosef Moro e Shelomoh Romano – si presentano a papa Giulio III (1550-1555), “dicendo: «C’è un Talmud sparso e diffuso fra gli ebrei: le sue credenze sono diverse a quelle di tutti gli altri popoli e riguardo al vostro Messia dicono calunnie» (…) Allora Giulio si adirò con grande impeto, la sua ira arse in lui ed egli intimò. «Confiscatelo e bruciatelo!»12”.
I sequestri comportarono l’ammassamento delle copie nelle piazze di Roma e l’accensione dei roghi durante il Sabato del Capodanno ebraico 5314, secondo il computo cristiano il 9 settembre 1554. Il compito di individuare, sequestrare e consegnare alle fiamme le copie del Talmud fu assegnato quindi all’Inquisizione, che si premurò di eliminare la letteratura ebraica in generale. Per salvaguardare la propria identità gli stessi ebrei dovettero chiedere a papa Giulio III una bolla in cui venisse specificato che solo il Talmud – e non altri testi – poteva essere sequestrato e distrutto. La distruzione di un gran numero di copie del patrimonio librario ebraico durante il periodo della Controriforma13 dimostra la volontà cattolica di regolamentare la produzione di libri di questa minoranza religiosa, impedendone, tramite il rogo dei testi rabbinici, la possibilità di studio e di crescita culturale.
IV.
Si può, quindi, ritenere concluso questo elaborato che ha rilevato come i roghi tra la fine dell’era medievale e il principio di quella moderna risultassero essere per l’autorità potenti armi disciplinari e moderatrici.
È triste, tuttavia, osservare come i roghi di libri (cioè la totale eliminazione di contenitori di idee, di identità, di culture e di sentimenti propri dell’essere umano) non siano da ricollegarsi alle sole società di Antico Regime. Anche nell’era contemporanea, infatti, si sono verificati – e continuano a verificarsi – episodi biblioclasti: farne una lista sarebbe inutile, oltre che di cattivo gusto.
Viviamo in un’epoca in cui l’oggetto libro evolve ed assume forme sempre nuove. L’uomo che intenda studiarne la storia, allora, deve ricordare che la grandezza del libro non risiede solamente nella sua manifattura ma, soprattutto, nelle informazioni che sono nascoste fra le sue pagine (cartacee o digitali che siano), quelle sequenze di significati che gli permettono di vivere. E, ogni volta, di sopravvivere.
Alessandro Luraghi